Pochissimi personaggi dei fumetti possono vantare un'originalità e un'importanza pari a quella di Deadpool negli ultimi trent'anni. Creato da Fabian Nicieza e Rob Liefeld, il mercenario più logorroico di sempre è diventato in breve un vero e proprio mattatore, un simbolo di irriverenza e sperimentazione narrativa, distinguendosi in modo assolutamente unico rispetto ad ogni altro "collega". Chiaro che quando nel 2016 uscì il primo film a lui dedicato, diretto da Tim Miller, le attese fossero altissime. Per fortuna non sono state disattese. Ora, dopo cinque anni, bisogna ammettere che Deadpool è stato una ventata d'aria fresca, un toccasana per un genere che orami più che epico, era spesso ripetitivo fino alla nausea e condizionato da una sempre maggior sterilità creativa.
L'eccessivo peso di un genere ipersfruttato
Non era difficile prevedere che, in virtù di un successo commerciale senza precedenti, i cinecomics (anche grazie ai progressi della CGI e dalla diminuita età media del pubblico cinematografico) sarebbero diventati gli assoluti protagonisti del grande schermo.
Più di una voce, però, ha fatto notare la conseguente sterilità insita in tale fenomeno, che ha generato non solo un appiattimento culturale, ma anche una ben poco costruttiva tendenza e rendere "seri" ed "impegnati" quelli che, in fin dei conti, sono sempre stati dei giganteschi parchi divertimento per il pubblico.
Deadpool, in tutto questo, è arrivato come un sano e gratificante sberleffo a questo genere cinematografico non solo verso se stesso, ma anche verso chi lo stava letteralmente vendendo come qualcosa che non era: un manifesto di una supposta nuova autorialità.
Ryan Reynolds, dopo il tremendo fiasco di Lanterna verde, ha trovato la sua vera dimensione in questo personaggio logorroico, buffonesco e che sfonda la quarta parete con la stessa nonchalance con cui demolisce ogni nemico, ogni cliché che dal western al noir, dall'action al buddy-movie, è arrivato nei fumetti cinematografici.
Partendo dalla trasformazione di Wade Wilson in Deadpool, Tim Miller ha operato a cuore aperto il moderno sistema dei blockbuster, ha letteralmente distrutto l'epica e il supposto lascito generazionale che X-Men, Avangers e i colleghi della DC avevano cercato di creare sul grande schermo. Il tutto, senza dimenticarsi di demolire l'ipocrisia e il puritanesimo manifesti anche tra calzamaglie, mantelli e affini.
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Quando decostruzione e parodia si sovrappongono
Alla fin fine, Deadpool è uno di quei film che allo spettatore chiede solo di lasciarsi andare, non ha alcuna pretesa se non quella di divertire ed essere fedele al suo personaggio. Citazioni, parodie, prendere palesemente per i fondelli il concetto stesso di supereroe e tutto l'immaginario romantico o pop che spesso ha ammorbato le nostre sale con improbabili storie d'amore o costumi ridicoli. Vietato prendersi sul serio, vietato prendere sul serio alcunché. In fondo, pare dire Deadpool, stiamo parlando di tizi che si vestono per carnevale e vanno contro altri tizi vestiti da carnevale. Non darsi alla pazza gioia quando si è in maschera, sarebbe veramente sbagliato no? I 108 minuti sembrano creati da un nerd adolescente sardonico e che ha ormai superato l'infatuazione per i mutanti di Stan Lee e Jack Kirby, anche nella loro accezione più tragica, più connessa a temi universali quali amore, vendetta o giustizia. Il paradosso? Deadpool è un film su una vendetta. Ma è soprattutto un film in cui siamo connessi ad un universo in realtà incredibilmente più vicino al nostro che a quello degli Avengers, Batman o X-Men che si voglia. Allo stesso tempo, lo sfondare la quarta parete si realizza nello stuzzicare la nostra tolleranza, con battute e gag continue su altre star, su se stesso, sulla sessualità, sul mondo di celluloide che stava proprio per ingoiare lui, Ryan Reynolds, con uno dei peggiori cinecomics di sempre. Un eroe? no. Un antieroe? Forse neanche quello. Più un mix di entrambi, un narratore onnisciente e cinico, che si beffe di noi e della sua sorte, del suo essere creatura di un mondo così involontariamente comico.
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Un film che distrugge i topoi del cinecomics moderno
Dal punto di vista visivo, Deadpool abbraccia in toto un action connotato ad uno splatter comico, strizza spesso l'occhio al cinema di Jackie Chan, quindi al cinema muto che fu, alla demenzialità in combattimenti in cui lo splatter si lega all'assurdo, alla parodia della stessa azione che oggi, dopo più di due decenni di cinecomics, è ormai diventata sempre più tediosa e ripetitiva. Lo sfondamento della quarta parete non è neppure così massiccio come ci si aspetterebbe, ma è sempre puntuale: nel decostruire vuoi lo Hugh Jackman di turno, vuoi la retorica buonista che ha in Colosso l'ambasciatore di un preciso regno dell'immaginifico, col tempo ormai diventato assolutamente slegato dalla realtà dei suoi lettori, del mondo stesso. Il fatto più interessante è che per la prima volta vediamo grazie a Deadpool quel mondo, quella scuola del Professor X, per quello che in realtà è: una sorta di inquietante gabbia del libero arbitrio, un mondo della fate che, per quanto connesso con temi quali diversità e inclusione, alla fin fine si fa portatore di una visione della vita paternalistica e abbastanza ottusa. Il mondo reale si diceva poc'anzi. Ebbene nel mondo reale (o meglio realistico dal punto di vista semiotico) di Deadpool, un cattivo come Ajax non va in prigione: viene eliminato, almeno secondo il nostro eroe mascherato, che rappresenta in fin dei conti la parte più anarchica, libertaria, illogica e meno corretta in un mondo in cui il bene è quasi identico al male nella sua dittatorialità. La saga degli X-Men, l'universo Marvel, lo Snyderverse, hanno cercato in modo diverso di elevare il materiale di partenza, talvolta ci sono anche riusciti, ma Deadpool fa nascere in noi una riflessione assolutamente imperativa: davvero il meglio del cinema di intrattenimento è creare costosissime giostre pseudo-impegnate su tipi in calzamaglia?
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Una risata in faccia al politically correct
Un altro elemento straordinario (e sempre più raro con i tempi che corrono) di Deadpool è l'assoluta mancanza di una qualsivoglia influenza del politically correct nella struttura del film. A conti fatti, il film pur essendo uscito 5 anni fa, ha molte più cose in comune per senso dello humor sferzante e dark, per ricorso ilare a stereotipi, sessismo e affini, con un film da fine anni 90 o al limite di inizio millennio. Colosso viene deriso per il suo essere omosessuale, Brianna Hildebrand e la sua Ellie diventano una sorta di punching bag con cui Deadpool distrugge l'universo femminista e il mondo dei presuntuosi teenager. E si ricordi che i teenagers sono il pubblico ci riferimento dei cinecomics. Il tassista Dopinder (che naturalmente ascolta musica indiana e parla come Apu dei Simpsons) viene incoraggiato da Deadpool a diventare il normale stalker violento della porta accanto. Il che è paradossale se si pensa che all'inizio il protagonista minaccia uno stalker. Nel film di Miller assaporiamo lo stesso registro ilare e dissacrante che ha permesso a Seth MacFarlane di rendere i Griffin così iconici e bellissimi, qui declinato in modo da disintegrare in modo prismatico, dentro e fuori dall'iter narrativo, quell'universo di riferimento. Verrebbe da pensare che, oltre alla decostruzione dell'eroe, vi sia anche una sferzante critica alla società americana violenta, bigotta ed ipocrita, se non fosse che tale ragionamento, è esattamente il prodotto di quella "scuola di pensiero" che questo film ha orgogliosamente rifiutato e sbeffeggiato. Sono solo fumetti, è solo Deadpool.
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