Il 20 gennaio 1946 nasceva l'unico, leggendario, mitologico David Lynch. Recentemente lo abbiamo ammirato nel cameo che chiudeva il film di Steven Spielberg, The Fabelmans. Lì il regista interpretava niente meno che John Ford, dando un consiglio di fondamentale importanza al giovanissimo alter ego dell'autore di Indiana Jones ed E.T. l'extra-terrestre. Ovviamente però, al di là dello spassosissimo omaggio cinefilo, la carriera di David Lynch è ricordata non tanto per le sue incursioni sui set altrui, quanto per il suo stile enigmatico e indecifrabile, unico nel suo genere.
Lungo il suo percorso cinematografico, Lynch ha avuto la fortuna e il piacere di poter collaborare con grandi attori e indimenticabili attrici. Ciò che però rende ancora più sorprendete il suo percorso è stata la voglia e la capacità di spaziare all'interno di generi completamente differenti pur imponendo sempre la sua personale revisione estetica e tematica. Così, abbiamo deciso di porgere i nostri personalissimi auguri di buon compleanno a questo regista ripercorrendo in ordine cronologico la sua carriera cinematografica (non ce ne vogliate, ma Twin Peaks lo abbiamo momentaneamente escluso da queste riflessioni) e soffermandoci sui cinque film più indimenticabili (e disturbanti) a cui abbia mai lavorato.
1. The Elephant Man (1980)
Il secondo lungometraggio diretto dal genio creativo di David Lynch è ricordato dal pubblico come il film più umano e commovente all'interno della filmografia dell'autore. The Elephant Man racconta la storia di un'amicizia straordinaria tra un uomo sfortunatamente deformata nell'aspetto fisico e sfruttata come fenomeno da baraccone e un dottore (Anthony Hopkins) che invece lo farà ricoverare nell'ospedale dove lavora per provare ad aiutarlo come può. La pellicola è molto emozionante, non solamente per via della struggente storia che racconta ma anche per la cornice più fiabesca e solidale scelta dal regista come chiave narrativa. Se l'interpretazione di John Hurt nei panni del protagonista non si discute (incredibile il lavoro svolto sotto, letteralmente, chili di trucco), Anthony Hopkins sorprende e convince nel restituire in scena un uomo di scienza diviso tra la sua indole da studioso e i sentimenti più paternalistici che poco alla volta lo coinvolgeranno. Il film non è riuscito ad aggiudicarsi premi importanti negli Stati Uniti, tuttavia è riuscito a ottenere otto nominations agli Oscar tra cui quella come miglior lungometraggio e come migliore regia.
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2. Velluto blu (1986)
Uno dei film più cinici e spietati di David Lynch. A due anni di distanza dal disastro di critica e pubblico in cui il regista incappò con il film di fantascienza Dune, l'autore torna dietro la macchina da presa per firmare un progetto decisamente calato in quelle che sono le sue ossessioni tematiche ed estetiche principali. Velluto blu è un lavoro personalissimo, ricco di tutto quell'apparato morboso e inquietante che ha contribuito a rendere il nome di Lynch sinonimo di garanzia. La provincia statunitense viene portata in scena con tutta la sua ferocia: un mondo apparentemente solare, colorato e perfettamente calato in un'armonia senza precedenti. Eppure è proprio qui che si annidano gli incubi peggiori. C'è un sopra e c'è un sotto in Velluto Blu. Il film è un viaggio nei meandri più cupi e torbidi della psicologia umana prima ancora che della società americana. Si tratta di un'opera intensa, ricca di momenti indimenticabili e che basa buona parte delle sue riflessioni sul concetto dello sguardo (insito proprio nel ruolo del regista cinematografico). Chiaramente la pellicola creò scalpore, tanto che, ad esempio, non partecipò alla Mostra del Cinema di Venezia perché il direttore dell'epoca, Gian Luigi Rondi, ritenne inopportuno presentare il film in rassegna per via della scena di nudo di Isabella Rossellini.
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3. Strade perdute (1997)
"Dick Laurent è morto": si apre e si chiude con questa frase uno dei film più affascinanti, enigmatici e controversi non solo della carriera di David Lynch ma probabilmente di tutti gli anni Novanta. In effetti, la figura del cerchio è la figura geometrica simbolo per eccellenza di quest'opera che in molti tra critici e studiosi hanno accostato al nastro di Moebius. La colonna sonora contiene brani tra i più influenti musicisti degli anni Novanta. Infatti, oltre alle partiture del compianto Angelo Badalamenti, è possibile ascoltare composizioni di Barry Adamson, Trent Reznor, Marilyn Manson e Danny Lohner oltre che brani non originali di David Bowie e Rammstein. La sceneggiatura, invece, è stata scritta a quattro mani da Lynch insieme a Barry Gifford, lo scrittore di Cuore selvaggio, romanzo da cui il regista aveva attinto per la sua pellicola omonima di qualche anno prima. Strade perdute è un noir moderno finalizzato a far perdere le coordinate allo spettatore. Per certi versi vi si possono già intravedere alcune spie del cinema che Lynch indagherà nel nuovo millennio con film quali Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006). Ancora una volta, il tema dello sguardo si rende centrale grazie alla presenza di un misterioso regista (Lynch stesso?) che vaga nel racconto con la sua macchina da presa: chi è che sta davvero guardando? Il pubblico o il personaggio/regista? Il cortocircuito diventa sempre più importante e intricato, tanto che il film risulta indigesto al pubblico più tradizionalista. Tuttavia, si tratta di una delle esperienze visive più importanti del secolo scorso, un appuntamento da non mancare per chi ama la settima arte.
4. Una storia vera (1999)
Dopo il caleidoscopico viaggio nella notte di Strade perdute, David Lynch sembra voler prendersi una pausa per ricaricare le pile in vista dello sprint finale che lo accompagnerà nel nuovo millennio. Una storia vera è probabilmente la pellicola più lineare (come suggerisce il titolo originale del film, A Straight Story), dolce e positivamente retorica della carriera dell'autore. I cortocircuiti, le digressioni narrative o psicologiche, il mistero e la circolarità del racconto cedono il passo a una pellicola di grande empatia tratta da un'incredibile storia vera. Un uomo di oltre settant'anni ha infatti davvero intrapreso un viaggio di oltre 300 miglia a bordo del suo tagliaerba. Probabilmente affascinato dalla follia di questo gesto, Lynch accoglie Alvin Straight (questo il nome del protagonista) all'interno del pantheon dei suoi personaggi eccentrici e controversi per metterlo al centro di questa sorta di road movie tanto assurdo quanto irresistibile. Le tematiche care al regista, le ossessioni del suo sguardo e le sue intuizioni estetiche restano invariate. Eppure qui tutto è virato in chiave più favolistica e poetica, lontana dalle tonalità più cupe e grottesche degli "incubi" portati in scena fino a questo momento. Il film ricevette addirittura una nomination agli Oscar per il miglior attore protagonista (Richard Farnsworth).
5. Mulholland Drive (2001)
Da molti considerato come il capolavoro massimo di David Lynch, nonché una delle vette più alte della Storia del cinema tout court (e non solo del nuovo millennio), Mulholland Drive spalanca le porte degli anni Duemila provando a chiudere definitivamente con il secolo precedente. Il viaggio allucinato e allucinante verso il sogno americano nella città del successo (Los Angeles ovviamente) si trasforma in un incubo senza ritorno in cui le immagini stesse si renderanno sempre più evanescenti e incomprensibili. È la prima volta che Lynch fa i conti con la Mecca del cinema, denunciando la sua natura effimera e menzognera in cui sembra impossibile provare a ricercare la verità. Il tema del doppio è il filo conduttore di questo thriller dell'anima complesso e viscerale in cui l'avvento delle immagini digitali è visto come un evento in grado di amplificare ulteriormente il disorientamento provato dinanzi allo spettacolo abbagliante di una città eternamente solare e splendente ma che cova dentro di sé un mondo spietato e torbido. Per questo film, David Lynch ha vinto il Premio per la miglior regia al Festival di Cannes, ex aequo con Joel Coen per L'uomo che non c'era (2001) e venne nominato all'Oscar proprio nella sezione miglior regista.
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