Gli spaghetti western di Sergio Leone e quelli violenti e cinici di Sergio Corbucci, il giallo all'italiana di Dario Argento e gli horror iperviolenti di Lucio Fulci, i poliziotteschi di Fernando Di Leo e i peplum mitologici con Maciste: tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta il cinema italiano era una vera e propria industria dell'intrattenimento capace di dare voce, oltre che alle personalità più autoriali e "serie", anche al bisogno del pubblico di provare semplicemente qualche brivido, qualche risata, qualche scarica di adrenalina e, perché no, pure qualche voglia pruriginosa in più. A loro volta, i migliori registi del lotto hanno fatto conoscere al mondo il loro talento e un modo nuovo di fare cinema tanto da ispirare tanti celebri registi (Quentin Tarantino e Brian De Palma, per dire i primi due). Col tempo, però, il cinema di genere in Italia, salvo qualche rara eccezione, è andato scomparendo. I David di Donatello 2020 sembrano fotografare un momento storico favorevole al cinema di genere che sembra essere considerato di nuovo come un cinema "di serie A". La domanda che ci poniamo è: siamo finalmente giunti alla rinascita del cinema di genere in Italia?
Lo domandarono a Jeeg Robot
È una domanda che puntualmente viene riproposta ogni qualvolta assistiamo a un paio di produzioni coraggiose che sembrano distaccarsi dalla solita netta divisione che sembra prevalere da anni nel nostro cinema (da una parte le commedie popolari più o meno comiche, dall'altra i drammi medioborghesi, meglio se caratterizzati da un messaggio morale perché, si sa, il cinema deve avere anche una funzione didattica) e che puntualmente trova una risposta temporanea, spesso entusiasta se il momento è opportuno, mai precisa e soprattutto poco convinta. Era il 2015 quando ci furono i primi sussulti a un ritorno della produzione di un cinema di genere italiano. La follia di Gabriele Mainetti nel realizzare Lo chiamavano Jeeg Robot, film di supereroi in salsa romana, fu ripagata da riconoscimenti sia da parte dell'Accademia (vinse 7 David di Donatello) che dalla parte del pubblico. L'idea di unire il modello del cinema di supereroi ancora in voga in questi anni e inserirlo in un contesto completamente italiano è risultata assolutamente vincente: non si cercava di replicare un immaginario che non appartiene alla nostra cultura ambientandolo in Italia (come accaduto con Il ragazzo invisibile - Seconda generazione in cui il protagonista deve vedersela contro i russi), ma di creare da zero quell'immaginario basandosi su modelli universali e, di conseguenza, di successo, inserendolo nella nostra cultura. È sottile, ma essenziale la differenza tra un Joker e Lo Zingaro: il primo può funzionare solo nascendo dall'acido di una super-industria, contro Batman a Gotham City; il secondo solo a Roma, nascendo da una delusione di carriera televisiva, scontrandosi contro Enzo. Il successo del film di Mainetti sembrava dare il via a una nuova scommessa produttiva: forse il pubblico aveva voglia di questo cinema.
Smetto quando voglio, cioè subito
Lo chiamavano Jeeg Robot creò una frattura. Piccola, stretta, ma dalla quale un po' di progetti riuscirono a passare dall'altra parte della barricata, quella che trasforma le idee in film esistenti. Non tutti riuscirono allo stesso modo, va detto, e nessuno sembrava aver colto i veri motivi per cui Gabriele Mainetti era riuscito nell'impresa. Anche se non si trattava di veri e propri film di genere, con l'uscita di contaminazioni riuscite come la trilogia di Smetto quando voglio (una commedia alla Soliti Ignoti che strizza l'occhio al linguaggio contemporaneo, a Breaking Bad e allo spettacolo) e Veloce come il vento (un dramma con un senso del montaggio e del ritmo inedito nel panorama italiano), l'impressione era quella di star lavorando per una vera rinascita di questo tipo di cinema. Purtroppo a distanza di cinque anni bisogna ammettere che si trattò per lo più di un fuoco fatuo. La difficoltà di rischiare e mettersi in gioco con nuove idee da sola non è comunque sufficiente a risolvere un problema ben più profondo: il linguaggio cinematografico all'interno delle nostre produzioni. Ciò che ha reso grandi, freschi e potenti film come Il buono, il brutto e il cattivo o Profondo Rosso non era solo il contenuto, ma la grammatica. Sergio Leone non tentava di assomigliare a John Ford replicandone le storie e, soprattutto, le inquadrature, ma osava a livello linguistico con primissimi piani, un senso dell'attesa e della tensione coadiuvato dal legame alchemico pazzesco con le musiche di Ennio Morricone. Per usare una frase riassuntiva: Sergio Leone è Sergio Leone perché ha creato Sergio Leone.
Il panorama cinematografico italiano attuale, invece, sembra aver paura di rinnovarsi, di sperimentare nuove vie di linguaggio o anche solo di ridare importanza alla musica e pensare le immagini per il grande schermo (mentre spesso la sensazione è che si stia già pensando, a monte, alla catena distributiva che porterà il film in televisione, con tutto quello che ne consegue: chiarezza espositiva, tanti primi piani, fotografia poco ricercata). Il risultato è stato quello di realizzare per la maggior parte commedie o drammi canoniche con sparuti elementi di genere, degli ibridi altalenanti (è il caso di Brutti e cattivi, film che torna sui binari nella seconda metà trasformandosi da gangster movie sopra le righe a favoletta morale di redenzione) che da soli non bastano né a dare avvio a un Nuovo Cinema di Genere né a trovare fortuna e accoglienza da parte del pubblico.
Matteo Rovere e il peplum de Il primo re
Chi sembra cercare di rinnovare davvero il cinema italiano è Matteo Rovere che, sia da produttore che da regista, sta dimostrando di essere alla ricerca di freschezza e novità. Con Il primo re, candidato a ben 15 David, Rovere realizza un ritorno al genere peplum che, nel 2019 - anno di uscita del film - sembra essere un'assoluta novità. L'intelligenza di Rovere è tale da sfruttare l'estetica del cinema contemporaneo: grazie all'incredibile direzione fotografia di Daniele Ciprì, Il primo re assomiglia a opere di tutto rispetto come Valhalla Rising e Revenant - Redivivo. Non solo: raccontando un mito leggendario italiano, ovvero la storia di Romolo e Remo e la nascita di Roma, si inserisce perfettamente nel panorama cinematografica che auspichiamo. È un film violento, con picchi sanguinolenti mai visti negli schermi del nostro Paese recentemente, con pochi dialoghi e un'estetica raffinata oltre a un paio di sequenze veramente spettacolari (l'inondazione del Tevere iniziale o le battaglie sotto la pioggia). Ci sarebbero tutti gli ingredienti giusti e i 2 milioni di incasso (non molti, ma in proporzione alla media un buon risultato) hanno premiato il film che avrà una sua serie televisiva dal titolo Romulus, ma la sensazione è quella di trovarsi di fronte a un film ambizioso che, nella ricerca di elevarsi, si dimentica del pubblico. La scelta del protolatino sottotitolato allontana lo spettatore più interessato al puro spettacolo e una seconda parte di film non perfettamente oliata come la prima non fa raggiungere a Il primo re quel senso dell'epica emozionante che un film di genere richiederebbe.
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Pinocchio: viaggio nel mondo fantasy
Altra fortuna, vuoi per l'uscita durante il periodo natalizio vuoi per il target più ampio, l'ha avuta Pinocchio di Matteo Garrone capace di incassare 15 milioni di euro ed essere nominato a 15 David di Donatello. Garrone non è nuovo al fantastico e aveva già dimostrato una buona attitudine alle fiabe con Il racconto dei racconti. L'adattamento del romanzo di Collodi è visivamente straordinario: il mondo presente all'interno del film è fascinoso e il lavoro sui costumi e il make up è straordinario. Un vero e proprio moto d'orgoglio per il nostro cinema, da sempre artigianale, analogico, con poca e invisibile presenza del digitale per preferire la materia tattile, lo sforzo di scenografi, costumisti, parrucchieri e truccatori. È senza dubbio meraviglioso perdersi nell'Italia composta da bestie antropomorfe di Pinocchio e, anche in questo caso, si ha la dimostrazione di come le maestranze capaci di creare un cinema "altro" rispetto ai canoni prestabiliti e normalmente accettati possono dar vita a mondi fantastici. Con le dovute differenze, l'importanza del Pinocchio di Garrone sta nel dimostrare che possiamo, all'interno del nostro cinema, realizzare una Terra di Mezzo tolkeniana senza per forza limitarci al mondo reale in costume. Purtroppo, anche in questo caso la sensazione è che, nonostante l'ottimo incasso, il film non sfrutti nel modo migliore le emozioni che dovrebbero trasparire, risultando in qualche modo poco empatico, più attento all'universo che alla vicenda del protagonista, dalle potenzialità inespresse.
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Di traditori e vendicatori: gangster e fumetti
L'esordio cinematografico di Igort è notevole. Nonostante qualche limite dovuto all'acerba padronanza del mezzo, 5 è il numero perfetto è forse il film più riuscito appartenente alla categoria del cinema di genere dell'anno. Tratto dal fumetto (e si vede) dello stesso regista, la sensazione è quella di avere in visione una bella e cruda storia di criminali, dove Napoli diventa una metropoli noir e dove la violenza si fa estetica, colore, il sangue è una pennellata. C'è del divertimento puro nel trovare Toni Servillo con un naso deforme, camminare sotto la pioggia come un Dick Tracy postmoderno, al netto di qualche problema di ritmo. Eppure la sensazione è che il film volesse essere più "alto". Le dichiarazioni di Toni Servillo durante la presentazione del film sembrano voler rimarcare che non si tratta di un "film di genere" perché 5 è il numero perfetto è un "graphic novel", quindi letteratura, e non un semplice "fumetto". Non vogliamo riaprire dibattiti in merito (lo stesso Servillo si è prontamente scusato), ma constatare come invece di dissolvere le barriere tra autorialità e cinema di genere (come sta succedendo in tutto il mondo, basti vedere i palmares degli ultimi Festival), gli addetti ai lavori italiani si stiano ancora confrontando su cosa sia degno di attenzione e di merito da poter elogiare, con un'unica certezza: il popolare non è arte. Ecco quindi che storie che potevano essere considerate di genere (cosa che le ultime stagioni di Gomorra - La Serie sembrano rispettare al meglio) come La paranza dei bambini o Il traditore, nel trattare argomenti un po' troppo noti della cinematografia nazionale come la lotta alla mafia o il mondo della criminalità organizzata, sembrano viaggiare a metà corsia non abbracciando completamente il genere e non risultando troppo autoriali. Il risultato sono ottimi titoli presi singolarmente ma che sembrano accomodare la voglia di rischiare e di affrontare il genere solo all'interno di certe ripetute tematiche.
Cinema di gener(e)azioni
Fa un po' strano parlare di esordio nel cinema con film di genere da parte di due autori che registi non sono e hanno tra i 45 e i 60 anni. Sia il già citato Igort, di professione fumettista, che Donato Carrisi, romanziere, hanno senza dubbio dato una leggera scossa. Carrisi con La ragazza nella nebbia nel 2017 è riuscito non solo a vincere il David come miglior regista esordiente, ma ha anche riportato il genere thriller nei cinema italiani riuscendo a incassare quasi 4 milioni di euro. Anche in questo caso si trattava di un adattamento dal suo stesso romanzo, ma l'ambientazione italiana unita saggiamente alle atmosfere del thriller nordico funzionava. Successo che, purtroppo, non si è replicato con l'opera seconda L'uomo del labirinto e un cast più internazionale. Fa strano (e anche piacere, sia chiaro) anche notare come un nome sacro e dalla carriera cinquantennale come Marco Bellocchio sembri essere rinato nel momento in cui riscopre il piacere di andare incontro al pubblico anziché abbracciare una completa visione autoriale. Eppure tutto questo non basta per parlare di rinascita del cinema di genere. Mancano ancora i giovani registi che riescano a far valere la loro fresca voce e a portare il cinema verso un linguaggio nuovo e una riscoperta verso i generi. Serve, insomma, un cambio generazionale di addetti ai lavori per catturare l'attenzione di un nuovo pubblico, per piacere agli spettatori storici ma soprattutto per arrivare agli spettatori di domani.
Cosa ci hanno detto i vincitori dei David
La cerimonia di premiazione si è svolta in una situazione straordinaria, ma i risultati dei vincitori dei David di Donatello 2020 hanno lasciato una fotografia quanto mai tradizionale e poco incline alle novità che l'annata di nominati poteva lasciar presagire (qui potete leggere tutti i premi dei David di Donatello 2020). 5 è il numero perfetto di Igort deve accontentarsi di un solo David a fronte di 9 candidature relegato all'ormai volto noto nell'industria Valeria Golino premiata come miglior attrice non protagonista. Non va in proporzione molto meglio a Il primo re di Matteo Rovere: quello che si è dimostrato il film dal linguaggio più fresco, più sperimentale nel panorama classico del cinema italiano, si porta a casa solo 3 statuette per la fotografia, il sonoro e il premio al miglior produttore. Quest'ultimo è un premio che in particolar modo sottolinea il coraggio dell'operazione, ma - a parere di chi scrive - ha anche il sapore del premio di consolazione. Gran parte dei premi se li sono spartiti i due film di Matteo Garrone e Marco Bellocchio. Il Pinocchio di Garrone ha fatto man bassa di premi tecnici, giustamente. Tutto il lavoro di trucco, acconciatura, scenografia, costumi ed effetti speciali è ciò che rende il film meritevole di visione e in questo caso possiamo tranquillamente affermare che i 5 David raccolti dalle maestranze che hanno dato vita a Pinocchio sono il giusto riconoscimento a un modo di fare cinema che vorremmo vedere più spesso. Artigianale, inventivo, capace di osare (che non vuol dire per forza di cose affidarsi a un tono dark, cupo e adulto) e costruire mondi fantastici che, tuttavia, appartengono al folklore italiano. Tra i vari vincitori, Il traditore è il film meno "di genere" anche se, rispetto alla media di Marco Bellocchio è un film che riesce a catturare una larga fetta di pubblico. Oltre al miglior film, i premi sono andati ai due attori maschili, alla sceneggiatura, al montaggio e alla regia. Un vero e proprio successo per uno dei film sicuramente più riusciti e meritevoli dell'anno. Eppure, a cerimonia conclusa, la sensazione è quella di aver assistito a un carosello di soliti premi e soliti premiati, con risultati che sembrano accontentare un po' tutti, ma che si rifiutano di concepire meritevoli di nota film imperfetti, ma "nuovi". Siamo contenti per il Maestro dalla carriera cinquantennale e con alle spalle una filmografia straordinaria (a partire da quell'esordio fulminante de I pugni in tasca), ma provocatoriamente ci chiediamo se sia davvero il caso di continuare a riconoscere personalità già premiate da anni e inserite nell'industria da tempo anziché fomentare i nuovi fuochi, le nuove voci, le nuove personalità. E con loro un nuovo modo di concepire il cinema. Sarebbe molto più interessante trovare nei premi e nel valore che rappresentano nuovi stimoli e novità anziché adagiarsi su conferme e tradizioni.
Pensare per il pubblico, agire come un'industria
Potremmo affermare che i film presenti ai David di Donatello di quest'anno in qualche modo abbraccino il genere e vogliano dimostrare, con risultati più o meno positivi, che esiste un altro tipo di cinema italiano. La maggior parte, però, vuoi per ambizioni, vuoi per dimostrare di essere considerati un cinema "alto" sembra dimenticare un aspetto fondamentale: il pubblico. Il cinema di genere è un cinema realizzato prevalentemente per il pubblico, per divertirlo, per spaventarlo, per esaltarlo. La sensazione, invece, è quella di assistere a un movimento principalmente messo in moto per dimostrare agli stessi addetti ai lavori che si è capaci di realizzare film diversi dal solito non mettendo completamente a fuoco a chi il film è destinato. Non vogliamo dire che sia facile intuire perfettamente i gusti dello spettatore medio nel 2020 né che un film popolare debba essere necessariamente esente da contenuti importanti. Crediamo che l'arte cinematografica non debba dividersi necessariamente in categorie precise né che debba esserci una gerarchia di contenuti considerati alti o bassi, ma che l'esperienza cinematografica è quanto più riuscita se si riesce a portare dalla propria parte lo spettatore.
Realizzare un film di genere, ma contaminarlo con intenzioni troppo ambiziose che allontanano lo spettatore e ne riducono pesantemente gli incassi è controproducente. Così come, a malincuore, possiamo affermare che non può esistere una rinascita di questo tipo di cinema - che in passato ha fatto la fortuna dell'Italia sia nei confini nazionali che in tutto il mondo - se film di questo tipo vengono realizzati solo a determinate condizioni risultando mosche bianche in un panorama sterminato. L'industria cinematografica italiana sembra non volere andare incontro alle esigenze del pubblico che forse si è stancato dei drammi borghesi o delle commedie popolari, tanto da non capitalizzarne i successi e ritardare la macchina produttiva che è il modello di una cinematografia viva e sana. Potevamo anticipare un successo clamoroso come Joker, con anni di anticipo, realizzando uno spin-off dedicato a Lo Zingaro o un sequel di Lo chiamavano Jeeg Robot con nuovi antagonisti, e invece si è preferito trattare il film come un unicum. Non agendo per il pubblico, senza voci giovani che sappiano raccontare storie fresche, pensando di più a un modello di cinema didattico che d'intrattenimento, ci troveremo a chiederci periodicamente se il cinema italiano sia in buona salute e se il cinema di genere stia rinascendo.