Tra gli ospiti d'onore del Geneva International Film Festival c'era anche David Cronenberg, acclamato autore canadese che da quattro decenni si è ritagliato uno spazio di non poco conto nel panorama del cinema anglosassone. Dalle sue frequenti incursioni nel body horror alla rilettura del genere crime, passando per la satira hollywoodiana che è Maps to the Stars, il suo cinema non lascia mai indifferenti, come ben sa chi ha visto Crash, il suo adattamento del romanzo di J.G. Ballard che affronta la questione di eros e thanatos nel contesto degli incidenti automobilistici. Quel film è stato restaurato quest'anno e sta facendo il giro dei festival, a cominciare dalla Mostra di Venezia, e siamo partiti proprio da lì per una chiacchierata a tu per tu sullo stato attuale del cinema.
Il ritorno dello scandalo
Stai presentando il restauro di Crash in diversi festival. Com'è stato rivisitare il film per la nuova versione 4K?
Strano, direi, perché la nozione di dover restaurare un film non particolarmente vecchio - è di 23 anni fa - mi sembrava curiosa. D'altro canto ricordo, anni fa, di essere rimasto sbalordito quando seppi che stavano restaurando Lawrence d'Arabia, che era prodotto da una major, aveva un cast d'eccezione, ebbe successo e vinse un sacco di Oscar. Questo la dice lunga sulla conservazione dei film. Nel nostro caso specifico le copie in 35mm scarseggiano, e molte di queste sono la versione censurata, che dura dieci minuti di meno, ed era necessario passare al 4K per poterlo editare in Blu-ray. È stato bello rivederlo, e soprattutto lavorare al sonoro, perché adesso è in 5.1, ed è magnifico ascoltare la musica di Howard Shore in quelle condizioni.
Io l'ho visto per la prima volta in VHS, era l'edizione inglese, senza tagli. Ti viene da sorridere quando ripensi allo scalpore che ci fu intorno al film nel Regno Unito?
Non so se "sorridere" è il termine giusto, perché ancora oggi il film è vietato a Westminster. È la zona di Londra con le sale più belle, e lì è illegale proiettare o vendere il film. La censura non è mai una cosa piacevole. Detto questo, in effetti fu abbastanza divertente come cosa. Ed è bello vedere che il film ha assunto una dimensione diversa al giorno d'oggi: sia a Venezia che a Montreal è stato bellissimo vedere che in sala c'erano soprattutto giovani che, presumo, non avevano mai visto il film prima, e nessuno era scandalizzato, sono rimasti tutti per il Q&A dopo la proiezione. È ancora un film strano, unico, che non si faceva neanche ai tempi. Anche chi lo odia ammette che è un'opera unica nel suo genere.
A tal proposito, secondo te sarebbe possibile farlo oggi?
Penso di sì. È un ambiente strano per il cinema indipendente, con Netflix e il declino delle sale. Penso che si potrebbe fare un film simile, ma forse solo per lo streaming, per un altro tipo di pubblico, senza l'uscita in sala. Già ai tempi non fu facile produrlo, anche se non costò tanto, perché era un film talmente estremo. È curiosa come cosa: quanto è mainstream una realtà come Netflix? Nel senso, ti permette di fare cose interessanti, e lo streaming rimuove la necessità del marketing classico, ma secondo me le cose più interessanti che fanno uscire sono le acquisizioni, non quello che producono in proprio.
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Questioni di streaming
A proposito di Netflix, è stato annunciato che stai lavorando a un adattamento streaming del tuo romanzo Divorati.
La notizia è stata riportata in modo inesatto. È successo a Montreal, e stavo parlando di due cose separate: la prima riguardava il mio interesse per lo streaming e la possibilità di fare una serie TV, formato che mi attrae perché non sarei l'unico regista e sceneggiatore e avrei più tempo a disposizione; la seconda era legata al mio romanzo, e che mi interesserebbe adattarlo. Il giornalista presente in sala ha messo insieme le due cose, ma per ora non ho nessun accordo con Netflix.
Parlando sempre di televisione, la prima cosa in cui ti ho visto come attore è stata la terza stagione di Alias, dove interpretavi uno scienziato. Ti diverte recitare nei progetti altrui?
Sì, perché è una disciplina molto diversa dalla regia. Non devi pensare a tutto, l'importante è imparare le battute e non andare a sbattere contro l'arredamento. È un esercizio molto interessante, e mi connette con il mondo dei set perché non faccio film da cinque anni. Ho recitato di recente in un episodio di Star Trek: Discovery, che girano a Toronto, ed è stato molto divertente anche perché la troupe è composta da molte persone che hanno lavorato ai miei film.
Ritiri e ritorni
Tre anni fa, in un'intervista concessa a Variety durante il Festival di Cannes, Viggo Mortensen ha detto che stavi pensando di ritirarti dal cinema. È vero?
Lo era ai tempi. Pensavo che Cosmopolis sarebbe stato il mio ultimo film, poi sono riuscito a trovare i soldi per fare Maps to the Stars, dopo dieci anni di tentativi. Pensai nuovamente che sarebbe stato il mio ultimo film, e avrei semplicemente continuato a fare il romanziere. Sono cinque anni che non giro un film, ma adesso ho in cantiere un paio di cose. Sono pronto a combattere, perché la situazione non è cambiata, l'ho visto di recente con mio figlio che è appena riuscito a girare il suo secondo lungometraggio: è difficile finanziare un film indipendente. Bisogna crederci davvero, e per un po' di tempo avevo smesso di farlo.
Sei sempre stato un outsider, e i tuoi film sono per lo più produzioni franco-canadesi. Questo ti aiuta, o è difficile anche con quel sistema?
È la natura dell'industria. A me non dispiacerebbe avere un budget considerevole e lavorare con le major, ma a loro non interessa il tipo di film che faccio io, ed è ancora più vero oggi, con sequel e effetti speciali a non finire. Se io facessi una cosa del genere, assomiglierebbe più a Il pasto nudo che a The Avengers.
A proposito della cultura dei sequel, quest'anno è uscito il remake di uno dei tuoi film, Rabid, sete di sangue. Ha visto la nuova versione?
No, ma ho incontrato le registe, le sorelle Soska, e sono andato molto d'accordo con loro.
Abitudini di visione
Oggi è difficile anche riuscire a far vedere i film indipendenti. Cosa guardi come spettatore?
Sì, è il problema di cui parlava Martin Scorsese, e ha ragione. In realtà anche venti o trent'anni fa era difficile dare visibilità al cinema indipendente, ma adesso la situazione è molto più confusa. Io guardo molte cose in streaming, soprattutto serie come Chernobyl o quello che si trova su Netflix e Amazon Prime.
Non vai al cinema?
Non ci vado più da anni, perché trovare il parcheggio a Toronto è complicato. Non mi crea nessun problema vedere i film a casa. Ne ho parlato anche a Venezia con Spike Lee: per me l'esperienza collettiva della sala è una bufala, capita una volta nella vita. Il cinema come cattedrale non è mai esistito, secondo me, e oggi è peggio, perché ti devi sorbire un'infinità di spot, la gente sta al telefono, non è un'esperienza piacevole.
Non ti capita neanche durante i festival?
No, perché ai festival divido il mio tempo tra interviste, pranzi vari e incontri con le persone. E francamente è quello che preferisco, incontrare la gente, è molto meglio che stare chiusi dentro una sala cinematografica per due ore. Facendo un esempio pratico, grazie a questo festival specifico sono a Ginevra per la prima volta in vita mia. Per quale motivo dovrei andare al cinema? Non ha senso.
Quindi non ti dà fastidio vedere The Irishman direttamente su Netflix?
Esatto, lo vedrò su Netflix. So che a Marty non farà piacere sentire questa cosa.