Daria D'Antonio e la luce come “un'esperienza di vita”. L'intervista alla direttrice della fotografia

"L'AI? Non può competere con il valore dei nostri sbagli", e ancora "Il cinema italiano deve ripartire dai nuovi talenti". Mezz'ora al telefono con Daria D'Antonio, autrice della fotografia tra i membri firmatari del nuovo collettivo Chiaroscuro, che riunisce tutti i professionisti della luce.

Daria D'Antonio sul set di Supersex

"Parlo molto, se non mi fermo più, dimmelo pure!", ci ripete, tra una domanda e l'altra, una delle più influenti direttrici della fotografia italiane, Daria D'Antonio. Se, per lei, la "luce è un'esperienza emotiva", ha tradotto i colori della sua Napoli per Paolo Sorrentino (prima con È stata la mano di Dio, poi con Parthenope), ha lavorato con Cristina Comencini in Tornare e poi con Fabio Mollo per il bellissimo (e sottovalutato) Il padre d'Italia, oltre che con Jasmine Trinca, nel film d'esordio Marcel!. Tra i suoi lavori non manca la serialità: Supersex su Netflix, Bang Bang Baby su Prime Video e ancora la straordinaria serie Sky Il miracolo. Con Daria D'Antonio siamo stati al telefono per più di mezz'ora, dopo aver risposto al primo squillo. L'occasione è la fondazione di Chiaroscuro - CCS, collettivo composto da autrici e autori della fotografia, riuniti in un "luogo di scambio ed esperienze", aperto a "tutti i colleghi italiani e stranieri che vogliono contribuire alla formazione di nuovi talenti".

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Daria D'Antonio in uno scatto di Andrea Pirrello

Ed è questo, per Daria D'Antonio, il punto più importante del collettivo Chiaroscuro: accompagnare le nuove generazioni all'interno dell'industria cinematografica italiana. "L'associazione è nata dalla necessità di un confronto, di un'apertura verso le nuove generazioni, puntando al confronto, e con uno sguardo attento verso gli studenti, verso chi si approccia al mestiere", ci dice la D'Antonio.

Daria D'Antonio, la fotografia e il collettivo Chiaroscuro: la nostra intervista

Il collettivo, tra l'altro, arriva in un momento preciso, in cui il cinema sta riscoprendo una certa unita d'intenti dopo anni di divisioni. "Per molti anni ci sono state delle condizioni favorevoli. Si sono prodotte delle opere che durano, penso ai film degli Anni Sessanta. Abbiamo visto alternarsi tante sensibilità. Poi c'è stato uno scollamento", prosegue l'autrice. "Non so se il Covid ha influito, ma ora c'è un ritrovo degli spazi. Collaborare sulle idee è fondamentale, senno ti chiudi nel tuo modo di pensare, senza stimoli esterni. Anzi, si fa ancora troppo poco, vedo pochi registi che hanno scambi continui". Tra l'altro, il cinema è l'arte più collegiale di tutte. "Il nostro è un lavoro collettivo che si fa insieme. Purtroppo si fanno ancora pochi dibattiti. Certo, ci sono delle isole felici, come il Cinema Troisi, dove si crea la giusta condizione per parlare. Devono esserci più occasioni".

La cultura come strumento di difesa

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Paolo Sorrentino e D'Aria D'Antonio sul set di Parthenope. Foto di Gianni Fiorito

Con Daria D'Antonio, appena tornata da Cannes dove ha accompagnato Parthenope (dal 24 ottobre in sala), abbiamo affrontato anche il discorso del cinema inteso come lavoro, e di quanto l'idea popolare non inquadri l'arte come un vero e proprio mestiere. "Il lavoro culturale non è mai stato considerato un vero lavoro, qui in Italia", confida. "Ma penso anche agli insegnati, che sono sempre stati bistrattati. Non per fare sempre esempio della Francia, ma lì la cultura ha un significato. La cultura è uno strumento per difendersi ed emanciparsi. Trent'anni fa c'è stato un tentativo di sopprimerla con la tv, tanto che veniamo intesi come intrattenitori. Diciamo che è semplificata l'attenzione verso la cultura, e non si legittima, anzi suggerisce idea di superficialità. Il cinema è un luogo aperto in cui si deve sperimentare, e non deve esserci auto-referenzialità".

La standardizzazione delle immagini

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Uno scatto in bianco e nero: sul seti di Supersex

Grazie a Daria D'Antonio, abbiamo la possibilità di affrontare il tema della standardizzazione delle immagini, in seguito alle produzioni streaming che puntano sull'estetica pre-confezionata. "La questione degli algoritmi è molta pericoloso... Pericolosa per chi fa, e per chi riceve. Il concetto del rassicurante nel cinema è rischioso e offensivo. Tutti devono essere aperti ad esperienze, e tentare di omologare qualcosa è pericoloso; non deve essere tutto pronto o preparato. Questo è un problema contemporaneo della nostra industria". Poi, un appunto sulla sala: "La sala è un momento di condivisione, stai con te stesso, ma godi anche della platea. Se fai una visione personale, in casa o sul telefono mentre sei in metropolitana, è tutto diverso. Dovremmo riscoprire un'educazione all'immagine, al racconto. Per dire, si legge molto poco.. si conoscono le filmografie di tutti, ma si legge poco. La letteratura ti fa costruire delle immagini visive che sono solo tue. Per questo stimolo molto alla lettura verso i miei studenti. E poi la vita è una fonte di ispirazione. Un diario visivo che si lega ad atmosfere, emozioni e sensazioni".

Le imperfezioni come valore aggiunto

Un momento storico di grandi cambiamenti, con un pubblico sempre più assoggettato alle immagini. Un bombardamento continuo di stimoli visivi, che però spesso non hanno una loro logica né una loro identità, creando uno squilibrio che poi si riflette sull'approccio dei nuovi professionisti del settore: "L'immediatezza del mezzo ha giocato un ruolo importante, ha cambiato un po' il modo di fare cinema. Per dire, ho iniziato con la pellicola e ho un approccio più analogico. Spesso collaboro con scuole e con il Centro Sperimentale, dove i giovani mostrano un modo diverso di fruire le immagini. Per me è diverso, sono cresciuta con meno possibilità di attingere agli strumenti. Ora in rete hai accesso a molte fonti, ma non c'è una via migliore, piuttosto i mezzi sono peculiari rispetto al tempo che uno vive. Devo dire che prendo tanto dai più giovani, mi aprono delle strade di pensiero. E a loro posso dare il racconto delle mie esperienze".

Cambiamenti che passano anche tramite l'appropinquarsi invadente dell'intelligenza artificiale: "Ciò che ci protegge dall'AI sono i nostri sbagli", spiega l'autrice della fotografia, "Le imperfezioni sono fondamentali, come la cura nel lavoro. Sul set cerco di non pensare che i miei film vengano visti tramite smartphone, mantenendo così alta l'attenzione". In chiusura, abbiamo chiesto a Daria D'Antonio cosa cambierebbe della nostra industria. Nessun dubbio nella risposta: "Sarei per la trasparenza totale, anche dal punto di vista dei finanziamenti. Tutte le persone coinvolte devono decidere di destinare le proprie risorse per un film. Ci vorrebbe anche un interesse maggiore rispetto a quello che si produce, e un'attenzione verso i nuovi talenti. Tanti ragazzi faticano a fare un film, è difficile accedere ai finanziamenti. È ridicolo, perché spesso sono film senza nomi forti, e ti dicono che non puoi competere sul mercato. Ma come fai a competere, se non hai nemmeno la possibilità di iniziare?".