Dopo una campagna promozionale perfetta, basata sul passa parola del pubblico mirato degli appassionati di fumetti, che l'ha amato alla Festa del Cinema di Roma e al Lucca Comics and Games, e su operazioni di marketing studiate - come l'uscita, lo scorso 20 febbraio, di un fumetto con quattro copertine differenti, firmate da nomi noti del mondo delle vignette come Leo Ortolani, Zerocalcare, Giacomo Bevilacqua e Roberto Recchioni, in allegato alla Gazzetta dello Sport -, arriva finalmente in sala Lo chiamavano Jeeg Robot, pellicola d'esordio di Gabriele Mainetti che, per la terza volta, dopo i corti Basette (2008) e Tiger boy (2012), affidandosi ancora alla sceneggiatura di Nicola Guaglianone, scritta a quattro mani con Roberto Marchionni, in arte Menotti, che, essendo autore anche di fumetti, di supereroi se ne intende, torna a parlare dell'Italia attraverso maschere prese direttamente dalla cultura pop giapponese.
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Dopo Lupin III e L'Uomo Tigre, è ora la volta di Jeeg Robot d'acciaio, anime anni '70 ispirato all'omonimo manga creato da Gô Nagai, che però non viene adattato, come ci si potrebbe aspettare dal titolo, in lingua italiana, ma diventa il pretesto per creare un nuovo mondo di supereroi dal sapore tutto tricolore. Ed è qui la forza del duo Mainetti-Guaglianone: unendo elementi tipici del cinema italiano, come il racconto della criminalità organizzata e i toni da commedia, ad altri estranei alla cultura cinematografica nostrana, superpoteri ed elementi fantastici praticamente non si sono quasi mai visti nelle nostre sale, Lo chiamavano Jeeg Robot è una creatura anomala quanto affascinante, che rielabora la cultura del fumetto americano e giapponese e la fa diventare uno specchio della società italiana contemporanea, paradossalmente molto più attuale di tante pellicole surreali in cui coppie squattrinate vivono in loft principeschi al centro di Roma.
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Perché tuuuu, tu sei Jeeg!
Già dal titolo, che richiama allo stesso tempo la serie animata giapponese e la saga western con Bud Spencer e Terence Hill Lo chiamavano Trinità, Lo chiamavano Jeeg Robot mostra questa sua natura di figlio cresciuto e nutrito dalla cultura pop anni '70, '80 e '90, che, con la fruizione ossessiva di film, fumetti, serie tv e videogiochi, deve scontrarsi con un presente cinematografico italiano in cui il cinema di genere è stato lentamente incenerito. Ben lontani dagli anni degli spaghetti western di Sergio Leone e dalla stagione d'oro dell'horror italiano, firmato da maestri come Dario Argento, Lucio Fulci e Mario Bava, il cinema degli ultimi 25 anni ha recuperato due dei filoni di maggior successo, la commedia all'italiana e quella sexy, duplicandoli all'infinito in film ripetitivi che mano a mano hanno esaurito i generi, portandoli a fisiologica saturazione, lasciando sempre più spazio a film "impegnati" pronti a fotografare drammatiche realtà italiane mostrate però sempre in interni asfittici e mai per le strade, in mezzo alla gente e alla vita vera.
Qualcosa si è mosso nel 2005 con l'uscita di Romanzo criminale di Michele Placido, adattamento dell'omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo, seguito poco dopo da Gomorra (2008) di Matteo Garrone, anche questo tratto da un bestseller, l'esordio di Roberto Saviano, che hanno fatto rinascere il genere gangster movie, anche grazie al testimone raccolto da Stefano Sollima, che ha trasformato le due pellicole nelle rispettive serie televisive prodotte da Sky. Gli ultimi dieci anni di cinema italiano, accanto ai film "impegnati" e alle commedie tutte uguali, sono stati dunque dominati dalla criminalità organizzata, ma di altri generi, tranne qualche tentativo horror poco riuscito, nemmeno l'ombra.
Il cambiamento però sta avvenendo: registi affermati come Matteo Garrone e Gabriele Salvatores hanno realizzato Il Racconto dei Racconti (2015) e Il ragazzo invisibile (2014), rispettivamente tra i primi film fantasy e di supereroi italiani, che si sono avventurati in generi praticamente inesplorati dal nostro cinema, riuscendo però parzialmente perché nati come fantasy e cinecomic ambientati in Italia ma ispirati alle grandi produzioni americane e non invece come fantasy e cinecomic "all'italiana". Il grande salto c'è proprio grazie al film di Mainetti che, invece di imitare modelli impossibili, sia per mezzi che per tradizione, ha creato un supereroe italiano al 100%: Enzo Ceccotti, il protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot, interpretato da Claudio Santamaria, non è stato morso da ragni radioattivi, ma diventa superforte cadendo nel Tevere, non si cura del comandamento, alla base dei cinecomics americani "da grandi poteri derivano grandi responsabilità" e inizialmente sfrutta le sue doti strabilianti per svaligiare bancomat e il suo scontro decisivo con il villain del film si svolge durante i derby Roma-Lazio, il tutto condito da un pesante accento romano: più italiano di così. Per fortuna, anche grazie al mondo del fumetto italiano, che sta conoscendo una nuova e sempre maggiore notorietà, Lo chiamavano Jeeg Robot non sembra essere un caso isolato: vediamo dunque qual è il destino che attende il cinema di genere italiano.
Non solo Jeeg: l'invasione dei supereroi in Italia
Grazie alla sempre maggiore visibilità del mondo del fumetto, basti pensare al lavoro svolto da Roberto Recchioni e dalla Bonelli per rendere più attuale il personaggio di Dylan Dog o alla notorietà raggiunta da Leo Ortolani, Gipi e Zerocalcare, che ormai trascende i semplici appassionati di fumetti, tanto da trasformare questi autori in casi letterari, le produzioni cinematografiche con protagonisti supereroi, o comunque legate alle strisce, stanno improvvisamente per invadere il panorama italiano. Oltre a casi particolari come Vittima degli eventi, il fan movie ispirato a Dylan Dog realizzato dagli YouTuber Claudio Di Biagio e Luca Vecchi, ad Agent Never di Vincenzo Alfieri, che trae spunto dal personaggio Nathan Never, e alla serie animata di Orfani, tratta dall'omonima saga creata da Recchioni e prodotta da Rai Com, Lo chiamavano Jeeg Robot è ormai la prima pietra su cui costruire la rinascita del cinema di genere italiano, uno spartiacque fondamentale, che, fondendo perfettamente la cultura dei supereroi con quella italiana, ha creato un genere nuovo, "il cinecomic all'italiana".
E l'ha fatto, come dicevamo prima, dando tante sfumature alla tipica lotta tra bene e male condita da superpoteri, con eroi che non sono tali e cattivi che hanno l'ossessione per le visualizzazioni su internet e i like, piuttosto che per il denaro, e prestando particolare attenzione alla periferia delle grandi città e all'ingiustizia sociale, mettendo in scena una fuga da realtà orribili tramite un distacco ottenuto grazie a simboli che rendono possibile andare avanti. Vero e proprio miracolo produttivo - la genesi lunghissima è dovuta al fatto che nessun produttore ha creduto nel progetto, costringendo Mainetti a realizzare il film da solo -, Lo chiamavano Jeeg Robot apre la strada a molti altri titoli, come la serie ispirata ai Cavalieri dello Zodiaco ideata da Marco Pecchinino, composta da sei episodi da 20 minuti ciascuno, finanziata tramite crowdfunding su Indiegogo, e Il lato oscuro, cortometraggio, girato ancora una volta da Vincenzo Alfieri, liberamente ispirato al personaggio di Batman.
Veloce come il vento e Monolith: largo ai motori
Non solo supereroi: i prossimi mesi saranno particolarmente eccitanti per il cinema italiano perché stanno per uscire due progetti che, proprio come Lo chiamavano Jeeg Robot, escono dagli schemi in modo netto, rendendo protagonista un elemento fino ad ora, se si escludono le scene di inseguimento di alcuni poliziotteschi anni '70, poco sfruttato in Italia, ovvero le automobili. Ispirandosi alla vera storia di Carlo Capone, Matteo Rovere ha realizzato Veloce come il vento, sorprendente action movie ambientato in Emilia Romagna nel mondo delle gare automobilistiche, in cui le scene di corsa sono spettacolari e funzionano perfettamente perché, come ci ha raccontato alle ultime Giornate Professionali di Sorrento, "il trucco per girare le scene d'azione in un certo modo è semplicemente farle veramente": imparando bene la lezione di film come Fast and Furious - Solo parti originali e Rush, Rovere ha girato un film d'azione perfettamente credibile, perché inserito in una realtà italiana che non ricalca semplicemente il cinema americano.
Anche il bersagliatissimo Stefano Accorsi, di recente vittima delle critiche sui social per il ruolo di Leonardo Notte nella serie 1992, qui cambia completamente pelle: nei panni logori di Loris, ex pilota di rally diventato tossicodipendente, l'attore dà un'ottima prova, perdendo peso e imbruttendosi proprio come gli attori americani, e dimostrando che, se le idee e la voglia di sperimentare ci sono, si può cambiare con risultati sorprendenti. Da segnalare il talento naturale di Matilda De Angelis, giovane cantante qui all'esordio dietro la macchina da presa.
Una macchina è anche la protagonista silenziosa di Monolith - nata da un soggetto di Roberto Recchioni, inizialmente pensato per una graphic novel Bonelli, sceneggiata insieme a Mauro Uzzeo e poi diventata anche un film -, pellicola diretta da Ivan Silvestrini, in cui un incidente trasforma un'auto sicura in una prigione, di cui a farne le spese è il figlio di una madre poco attenta. Girato per cinque mesi tra Los Angeles e il deserto dello Utah, Monolith è un progetto anomalo, che vede la collaborazione diretta tra cinema e fumetto, unendo le forze produttive di Sergio Bonelli Editore, la casa di produzione indipendente Lock & Valentine di Davide Lucchetti, Lorenzo Foschi e Claudio Falconi e Sky Cinema.
Mine e Ice Cream: i thriller psicologici che puntano all'America
Ancora deserto in Mine, film scritto e diretto da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, in cui un soldato, interpretato dalla star internazionale Armie Hammer, dopo una missione fallita, si trova intrappolato nel deserto dovendo affrontale pericoli non solo fisici ma psicologici: un thriller che si unisce al film di guerra, con cast e produzione internazionale, la Safran Company di Peter Safran, già produttore di L'Evocazione - The Conjuring. Sempre della serie "italiani in America", dovrebbe arrivare prossimamente nelle sale anche Ice Cream, lungometraggio diretto da Roberto Feo, tratto dall'omonimo corto, uscito nel 2010, realizzato insieme a Vito Palumbo, in cui un ragazzo timido e introverso entra in un locale per comprare del gelato e finisce per lottare con una banda di bulli: ambientato in una Puglia che sembra il set di un film western, il corto splatter, che prende ispirazione dal cinema di Quentin Tarantino, esplicitamente ringraziato nei titoli di coda, ha partecipato a diversi festival internazionali. Il lungometraggio che espande l'idea è stato girato negli Stati Uniti, ma per il momento l'uscita nelle sale è bloccata a causa di un problema di carattere legale.
Lo strano caso di I Racconti dell'orso
Caso a sé è il lungometraggio I racconti dell'orso, opera prima di Samuele Sestieri e Olmo Amato, nata come un diario video del loro viaggio in Finlandia e trasformatosi man mano in un vero e proprio film. Presentata in concorso al Torino Film Festival 2015 e poi all'International Film Festival di Rotterdam nella sezione The Bright Future Award, la pellicola narra la storia di due personaggi misteriosi, un omino rosso e un monaco meccanico, che si incamminano in un viaggio in mezzo a una natura fatta di colori vivaci e luce abbagliante, raccontata attraverso lunghi silenzi e richiami alle immagini di Terrence Malick e all'atmosfera onirica delle opere di David Lynch. Non identificabile con nessun genere preciso, I Racconti dell'orso è un esperimento giocoso pieno di amore per il cinema, che fa ben sperare per il futuro della cinematografia italiana, che vede nascere in questi ultimi anni diversi talenti pieni di voglia di sperimentare.