Superate le apocalittiche profezie dei Maya, e preso atto che il mondo (con tutte le sue visioni, comprese quelle cinematografiche) non era destinato a concludersi in questo 2012, possiamo tentare uno sguardo d'insieme su questa ricca (ma come sempre molto sfaccettata) annata cinematografica. Un'annata che si chiude con il suo film forse più atteso, sicuramente tra i più attesi degli ultimi anni: Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato, dopo le note vicissitudini produttive che si sono concluse col ritorno alla regia di Peter Jackson, è sbarcato in modo massiccio nelle nostre sale, concentrando su di sé gran parte dell'attenzione del pubblico nel periodo natalizio. Una pellicola, quella di Jackson, che ha già diviso pubblico e critica, certo affascinante ma sofferente della sproporzione tra l'entità del materiale di partenza (un romanzo di circa 300 pagine) e la sua dilatatissima trasposizione sullo schermo, in una nuova trilogia di cui il film appena uscito rappresenta il primo capitolo. Dubbi, su un'opera comunque importante e degna di visione, li ha suscitati anche l'innovativo sistema di ripresa (quei 48 fotogrammi al secondo che hanno dato al film un look a dir poco insolito) nonché un 3D non sempre funzionale ed usato al meglio. Proprio riguardo al tema della terza dimensione, non possiamo non citare un esempio per molti versi speculare al film di Jackson, anche perché uscito quasi in contemporanea: il kolossal Vita di Pi, ambiziosa trasposizione del romanzo di Yann Martel ad opera di Ang Lee, è invece un ottimo esempio di come la stereoscopia possa rappresentare un valore aggiunto per un film, tale da conferire a scenografie di per sé ricche di fascino, uno stordente ed accattivante senso di profondità.
Recensione di Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato Recensione di Vita di Pi
La riflessione sul 3D, in una stagione con una massiccia presenza di blockbuster che in parte si sono avvalsi di tale tecnologia, continua a rimanere un punto critico delle analisi sull'attuale momento cinematografico: non si è estinta, così come prevedevano i più scettici, ma non ha neanche segnato quell'epocale passaggio, paragonabile a quelli che seguirono l'avvento del sonoro e del colore, tale da ridefinire per sempre le coordinate del mezzo. La stereoscopia, attualmente, pare avviata a una lunga convivenza (favorita anche dalla persistente possibilità, per gli spettatori, di scegliere se avvalersene o meno) con la visione tradizionale: ciò, almeno, in attesa di ulteriori innovazioni tecniche, che permettano di eliminare gli ancora fastidiosi, e ingombranti, occhialini. Non è un caso che quest'annata, tra le tante pellicole di cassetta uscite in 3D (divise tra blockbuster d'azione, riconversioni come quelle di Titanic in 3D e Star Wars - Episodio I: La minaccia fantasma 3D e film d'animazione) abbia visto l'arrivo in sala di quell'Hugo Cabret che, insieme ad Avatar, rappresenta tuttora il migliore, più consapevole ed esteticamente pregnante uso della terza dimensione: sono ancora una volta gli autori (in questo caso Martin Scorsese, oltre al già citato Ang Lee), con la loro personale poetica, a far propria una tecnologia, modellandola alle proprie esigenze e decretandone o meno il successo.Esclusiva su Titanic in 3D - Il video-saluto di Jon Landau Recensione di Titanic in 3D Recensione di Hugo Cabret
Parlando comunque di grandi autori hollywoodiani, e dei loro film a due o tre dimensioni, non è Scorsese l'unico a segnalarsi per l'uscita di una sua nuova opera: mentre si attende l'arrivo del già discusso (e fischiatissimo all'ultima Mostra del Cinema di Venezia: ci torneremo) To The Wonder di Terrence Malick, abbiamo potuto godere delle nuove opere di cineasti quali Clint Eastwood, Steven Spielberg, Oliver Stone e William Friedkin. Pellicole tra loro molto diverse, ma accomunate dalla coerenza stilistica mostrata, negli ormai vari decenni di carriera, dai rispettivi autori: se Eastwood con J. Edgar continua a gettare il suo sguardo disilluso sulla storia americana, da un punto di vista diametralmente opposto a quello che emerge (anche) da Le belve di Stone, Spielberg con War Horse celebra una nuova, grande epopea morale, e Friedkin nel suo Killer Joe declina sotto una nuova ottica quel noir di cui tutto il suo cinema è impregnato. Spiace non poter aggiungere alla lista quel Woody Allen che, dopo aver diretto con Midnight in Paris un film-cartolina riuscito e gradevole, con la giusta dose di leggerezza e malìa, non riesce a replicarsi nella sua incursione in Italia: To Rome With Love si è rivelato deludente e macchinoso, sofferente di gag forzate e di una serie incredibile di attori sprecati (primi tra tutti, Alec Baldwin e Roberto Benigni). Non è forse un caso che la distribuzione italiana, visti anche i non esaltanti risultati al botteghino di questa nuova pellicola, abbia pensato di far uscire di nuovo in sala, nei mesi estivi, il precedente film di Allen, insignito anche dell'Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Sempre sul fronte della commedia, anche se su un versante decisamente più "indipendente" e dal gusto cinefilo, si colloca il nuovo lavoro di Wes Anderson Moonrise Kingdom: una colorata e gustosa storia d'amore pre-adolescenziale, dai colori pastello che riflettono l'ambientazione anni '60, e impreziosita dalle prove di interpreti come Bruce Willis, Edward Norton e Bill Murray.Recensione di J. Edgar Recensione di Killer Joe Recensione di Moonrise Kingdom
Con riferimento alla notte degli Academy Awards, va sottolineato come quest'anno la premiazione abbia rappresentato una celebrazione, più che di Hollywood, del cinema tout court e della sua storia: celebrazione ottenuta tuttavia per la via più facile, visto che, dei due film che, con modalità diverse, incarnavano questa tendenza (The Artist e Hugo Cabret) è stato il primo a trionfare, almeno nelle categorie principali. Una serata, quella delle statuette più ambite, che quest'anno è stata monopolizzata dallo scontro (dall'esito tuttavia ampiamente prevedibile) tra i due "giganti" appena citati, e che ha lasciato qualche briciola alle altre opere presenti: tra queste, nelle nostre sale sono sbarcati l'apprezzabile dramma sociale The Help, diretto da Tate Taylor, il Paradiso amaro (e doloroso) di Alexander Payne e George Clooney, il thriller Millennium - Uomini che odiano le donne, con un David Fincher che rilegge con la sua estetica dark e traslucida il thriller di Stieg Larsson, e una Meryl Streep che da sola regge tutto il peso di un biopic un po' ingessato come The Iron Lady. La stessa Streep, in questo 2012, dopo l'impegnativa interpretazione della "lady di ferro" Margaret Tatcher, si è poi concessa una prova più "leggera" in una commedia come Il matrimonio che vorrei: ma, anche qui, è la sua esperienza, insieme a quella dell'altra star Tommy Lee Jones, a tener su gran parte della pellicola.Oscar 2012, il giorno dopo: tante parole per un film muto Recensione The Artist Recensione The Iron Lady
Hollywood, dunque, protagonista anche di questo 2012 di celluloide: ma è una Hollywood a molte facce, quella che abbiamo potuto vedere quest'anno, e tra queste un'assoluta rilevanza ha quella che (pragmaticamente, senza nostalgia) recupera un decennio tra i suoi più interessanti e produttivi come gli anni '70. Argo di Ben Affleck, in questo senso, è una programmatica dichiarazione di aderenza a quell'estetica, a quei temi, a quel sentire cinematografico. La conferma, dopo le sue due precedenti regie, di un autore a tutto tondo, che si candida più che mai a erede (ma non diciamolo troppo forte) di quel Clint Eastwood che, dopo il suo già citato biopic, si è anche concesso proprio un gradito ritorno davanti alla macchina da presa, nell'apprezzabile Di nuovo in gioco. Ancora classicità, ancora temi politici, ancora vigore ideale ne La regola del silenzio di Robert Redford, thriller in cui l'attore/regista offre anch'egli il suo sguardo sul problematico decennio dei seventies: affrontando, stavolta, il tema di quei militanti pacifisti e radicali che, saltando il fosso, decisero di affidare alle bombe e agli attentati le loro ragioni.Ma Hollywood è anche quella delle saghe, dei remake e reboot, dei serial cinematografici: di questi ultimi, per uno nuovo che se ne apre (Lo Hobbit) ce n'è un altro che ci saluta, per il sollievo (mal celato) di molti: i morsi e i sospiri dei vampiri (ex) adolescenti Kristen Stewart e Robert Pattinson trovano la loro conclusione in The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 2. Nel frattempo, lo stesso Pattinson sta cercando (come prima di lui il Daniel Radcliffe di Harry Potter) di differenziare la sua offerta attoriale, con produzioni come lo sfarzoso Bel Ami - Storia di un seduttore e il complesso Cosmopolis, problematica, a tratti verbosa, ma affascinante nuova regia di David Cronenberg.
Ben Affleck: 'Argo è un omaggio a chi si sacrifica per il suo paese' Recensione La regola del silenzio Recensione Cosmopolis
Restando alla serialità e alle saghe, da sempre rifugio sicuro per l'industria di celluloide, un cenno va fatto anche a quelle spionistiche, dedicate ai personaggi di 007, Ethan Hunt e Jason Bourne: se le prime due, grazie soprattutto al tocco dei rispettivi registi Sam Mendes e Brad Bird, hanno ritrovato smalto, spettacolarità e incassi con Skyfall e Mission: Impossible - Protocollo Fantasma, The Bourne Legacy fa rimpiangere in parte il duo composto da Paul Greengrass alla regia e Matt Damon protagonista; ciò, nonostante la presenza di un cineasta esperto come Tony Gilroy, e di un Jeremy Renner che cerca, come può, di raccogliere lo scomodo testimone lasciato da Damon. Per il resto, il sempiterno Sylvester Stallone continua a divertirsi (e a divertire) con un I mercenari 2 che, rispetto al predecessore, è omaggio ancora più scoperto e collettivo all'action anni '80: discorso che Sly approfondirà ulteriormente nel prossimo, imperdibile Jimmy Bobo - Bullet to the Head, ritorno alla regia del grande Walter Hill e visto in anteprima all'ultimo Festival del Film di Roma. Ma serialità significa anche, in un certo senso, recuperare le suggestioni di un classico e offrirne, un trentennio dopo, un prequel tanto atteso quanto sbagliato: onore comunque a Ridley Scott per aver tentato, con Prometheus, questa impresa, in parte gravata dall'oggettiva distanza tra l'industria di celluloide attuale e quella che partorì un capolavoro come il suo Alien. Se i territori della sci-fi ci hanno offerto anche, quest'anno, un trascurabile remake come Total Recall - Atto di Forza, e il ritorno di un franchise tuttora molto amato con Men in Black 3, un cenno va fatto altresì, sul versante young adult, al buon avvio della saga di Hunger Games, trasposta da una fortunata serie di romanzi e con protagonista la talentuosa Jennifer Lawrence.Skyfall: Sam Mendes svela la british beauty del suo Bond Recensione di Prometheus Recensione di Hunger Games
Come da tradizione degli anni recenti, anche questo 2012 ha visto una parte importante del cinema statunitense affidarsi alle trasposizioni fumettistiche: tra le prime, un posto particolare lo occupa l'atteso Il cavaliere oscuro - Il ritorno, commiato di Christopher Nolan al personaggio dell'Uomo Pipistrello. Una conclusione, quella di Nolan, narrativamente imperfetta ma visivamente potente, per una trilogia che è riuscita ad unire (caso rarissimo nell'ambito dei comic movie) autorialità e fedeltà allo spirito del personaggio. Da segnalare anche, sul fronte storicamente opposto (quello Marvel) il reboot della saga dell'Uomo Ragno con The Amazing Spider-Man: uno spettacolare ma un po' effimero nuovo inizio che (per ora) non ha aggiunto molto alla visione del personaggio data da Sam Raimi, nonostante la vivace regia di Marc Webb e un divertente Andrew Garfield a indossare il tradizionale costume rosso e blu. Ma il titolo di punta della Marvel, quello su cui la casa americana ha puntato di più, è stato senz'altro il collettivo The Avengers: punto di congiunzione (annunciato) delle varie saghe super-eroistiche portate recentemente sullo schermo, il film è stato affidato a un autore di culto come Joss Whedon, che grazie alla sua anima da vero fan è riuscito a far incontrare (e scontrare) eroi che si sono rivelati meglio caratterizzati che nei rispettivi franchise. Lo stesso Whedon è stato anche l'anima che ha mosso, insieme al regista Drew Goddard, il progetto di un horror che si rivelerà, probabilmente, tra i più importanti di questo decennio: parliamo del citazionista, metacinematografico e gustoso Quella casa nel bosco, scritto dal team (Goddard e Whedon) che già portò al successo serie come Buffy - L'ammazzavampiri ed Angel.Batman, un oscuro ritorno. Ma noi preferiamo parlare di cinema Approfondimento: Ode a Joss Whedon: la rivincita di un nerd Recensione de Il cavaliere oscuro - Il ritorno Recensione di The Avengers Recensione di Quella casa nel bosco
L'altro tradizionale punto di forza dell'industria hollywoodiana, ovvero il cinema d'animazione, ha offerto in questo 2012 alcuni ritorni, altrettante conferme e qualche gradita novità. Tra i primi vanno ricordati senz'altro i sequel L'era glaciale 4: Continenti alla deriva e Madagascar 3: ricercati in Europa, nuovi capitoli di saghe longeve quanto tuttora apprezzate dagli spettatori di tutte le età; tra le conferme, citazione obbligatoria per la Pixar di Ribelle - The Brave, film spettacolare ed efficace nonostante le vicissitudini produttive che gli hanno fatto cambiare regia (e faccia) durante la lavorazione; nonché per la Dreamworks dell'altrettanto riuscito Le 5 leggende. Tra le novità, vanno invece annoverati il videoludico Ralph Spaccatutto, sentito omaggio targato Disney ai videogiochi anni '80. e un ParaNorman che (esordio alla regia dello storyboarder Chris Butler) riesce a citare in modo intelligente, in una commedia adatta a grandi e piccoli, molto del cinema fantastico e horror che molti di noi amano. Un regista che con l'animazione ha avuto più di una volta a che fare, e che presto rivedremo alle prese con questo genere nell'attesissimo Frankenweenie, è Tim Burton: nell'attesa del remake del suo corto del 1984, il freak per eccellenza del cinema americano si è riunito col fido Johnny Depp in Dark Shadows, versione cinematografica di una serie cult degi anni '60. Un'opera caratterizzata dal consueto estro visivo burtoniano, ma poco compatta narrativamente, dai più considerata un nuovo passo falso (dopo i discussi Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street e Alice in Wonderland) di un regista che sembra non attraversare la fase migliore della sua carriera; tuttavia, stando alle notizie giunte dai recenti festival di Londra e Courmayeur, proprio Frankenweenie (in arrivo nelle nostre sale a gennaio) sembrerebbe aver riportato Burton ai fasti di un tempo.Recensione di Ralph Spaccatutto Recensione di Dark Shadows Recensione di Frankenweenie
Spostando il nostro sguardo da Hollyood verso i territori, forse meno scintillanti ma altrettanto esteticamente pregnanti, del cinema europeo, citiamo innanzitutto uno dei più interessanti autori dell'attuale panorama britannico, quello Steve McQueen di cui quest'anno abbiamo potuto apprezzare, su grande schermo, entrambe le regie: il duro e nichilista Shame, arrivato in sala proprio a inizio anno e già presentato a Venezia nel 2011, e il precedente (e recuperato all'uopo) Hunger, intenso dramma politico accomunato al suo successore dal protagonista Michael Fassbender. Ma la pellicola europea forse più importante giunta nelle nostre sale in questo 2012 è stata quella che ha trionfato all'ultimo Festival di Cannes: Amour, intensa e rigorosa nuova opera di Michael Haneke, ha toccato il cuore e il cervello del pubblico (e dei giurati) della Croisette, grazie alla forza della sua messa in scena e alle dolenti interpretazioni di Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant. Una Palma d'Oro meritata in una manifestazione, quella cannense, che ha provocato quest'anno qualche perplessità per gli altri riconoscimenti (il discutibile premio alla regia per l'evanescente Post Tenebras Lux, il Gran Prix a Reality di Matteo Garrone, con i prevedibili sospetti di nepotismo sul presidente di giuria Nanni Moretti); tuttavia, la manifestazione diretta da Thierry Fremaux ha ancora una volta fatto da cassa di risonanza per titoli che, tra la selezione ufficiale e quelle collaterali, si sono fatti largo nella nostra distribuzione più d'essai e attenta alla qualità. In attesa che un'opera originale e fuori da (tutti) gli schemi come Holy Motors di Leos Carax trovi una qualche forma di distribuzione, dalla Croisette sono sbarcati o sbarcheranno presto nelle nostre sale (in ordine sparso) l'intenso Il sospetto di Thomas Vinterberg, la commedia militante di Ken Loach La parte degli angeli, i problematici Oltre le colline e Anime nella nebbia, diretti rispettivamente da Cristian Mungiu e Sergei Loznitsa, il toccante e mai retorico Un sapore di ruggine e ossa di Jacques Audiard. Anche il dramma postbellico Buon anno Sarajevo, presentato nella sezione Un certain regard, farà presto il suo meritato approdo nelle nostre sale, così come il lirico Beasts of the Southern Wild, esordio alla regia dello statunitense Benh Zeitlin; anche se a noi, tra i titoli selezionati nella stessa Un certain regard, piacerebbe (ri)vedere un'opera dura e complessa come Después de Lucía di Michel Franco, giustamente insignito del relativo premio.Cannes 2012: cala il sipario su un'edizione che farà discutere Recensione di Amour Recensione di Un sapore di ruggine e ossa Reality: l'avventura di Matteo Garrone ricomincia qui
Da Cannes all'Italia, dal palcoscenico della Croisette ai successi e alle contraddizioni del cinema di casa nostra, il passo è stato (quest'anno in particolare) molto breve: oltre al già citato Reality, infatti, la cui riuscita artistica ci sentiamo senz'altro di difendere, dalla selezione cannense abbiamo accolto in sala il ritorno nel Bel Paese del maestro Bernardo Bertolucci, con un'opera "piccola" ma sentita come il suo Io e te. Persino Dario Argento, cineasta che credevamo ormai perduto in un'inarrestabile involuzione, ha mostrato importanti segnali di ripresa col suo Dracula 3D, sentito e sorprendente omaggio alla sempiterna figura del Conte e all'horror artigianale targato Hammer. E' stata una produzione, quella italiana del 2012, che in parte si è legata alle "vetrine" offerte dai grandi festival (oltre a Cannes, vanno ricordate - soprattutto - le manifestazioni veneziana e romana, su cui torneremo) e che ha mostrato, al solito, una divaricazione tra una commedia ormai ampiamente codificata, e un cinema legato principalmente all'impegno sociale. Resta ancora fuori, almeno dai circuiti distributivi che contano, quello che una volta si chiamava "il genere", pur con qualche rilevante eccezione: al già ricordato film di Argento, vanno aggiunte ben due opere dei fratelli Manetti, il fantascientifico e autoironico L'arrivo di Wang, e lo stereoscopico Paura.Intervista: Bernardo Bertolucci, un bambino con gli occhi da poeta a Cannes
Dario Argento: 'Il mio Dracula, espressionista e romantico'
Recensione di Paura
Intervista: Paolo Genovese presenta la sua famiglia perfetta Daniele Vicari: 'Diaz è la coscienza di un Paese' Recensione di Romanzo di una strage
Il cenno alla kermesse veneziana ci porta inevitabilmente a parlare di festival, e in particolare delle due vetrine, mai così giustapposte come quest'anno, del Lido e di Roma: eventi entrambi decisamente rinnovatisi, nello staff e nella concezione, in particolare con la nomina dei due nuovi direttori artistici, rispettivamente Alberto Barbera e Marco Muller. Due eventi comunque accomunati, nell'edizione di quest'anno, dall'attenzione data al cinema italiano, punto di forza del festival veneziano ed elemento importante (anche se per molti versi critico) di quello romano. In un'edizione che comunque, qualitativamente, non è stata al livello delle precedenti, Barbera ha portato al Lido opere italiane rilevanti, equamente suddivise tra autori affermati e già "di famiglia" nel festival veneziano, e interessanti nuove proposte: tra le prime spicca il problematico e dolorosissimo Bella addormentata di Marco Bellocchio, a cui il regista ha fatto seguire le consuete (ma evitabilissime) polemiche sulla mancata assegnazione di un premio; ma una citazione la merita anche E' stato il figlio di Daniele Ciprì (che condivide col film di Bellocchio l'attivissimo protagonista Toni Servillo), grottesco affresco familiare che diventa nel suo svolgimento un horror dei sentimenti. Tra le novità di rilievo, una citazione la meritano sicuramente l'intelligente L'intervallo di Leonardo di Costanzo e il drammatico, anche se forse eccessivamente "urlato", Gli equilibristi di Ivano De Matteo, entrambi presentati nella sezione Orizzonti.Per il resto, Barbera ha assemblato una selezione composta da titoli importanti ma anche da troppi riempitivi, specie tra le pellicole fuori concorso (l'inutile dramma Cherchez Hortense, ad esempio, o stanchi, derivativi esempi di cinema di genere quali Shark e Tai Chi 0): ad avere la meglio nella sezione competitiva (la cui giuria è stata presieduta da Michael Mann) è stato il Kim Ki-Duk di Pietà, trattato sul capitalismo e la violenza in forma di film, che ha avuto il merito di restituirci un regista al meglio dopo le ultime, non convincenti prove. Il film di Kim ha superato contendenti eccellenti come il The Master di Paul Thomas Anderson e l'acido Paradise: Faith di Ulrich Seidl (rispettivamente premio per la miglior regia e Premio Speciale della Giuria), mentre il sentito dramma sessantottino Qualcosa nell'aria di Olivier Assayas ha ottenuto il riconoscimento per la migliore sceneggiatura. Criticatissime, in modo a nostro avviso (a dir poco) ingeneroso, le ultime prove di Terrence Malick e Brian De Palma: se Malick, con To the Wonder, ci consegna un'opera fascinosa e imperfetta, spostando il suo sguardo estatico sui paesaggi metropolitani e sulla complessità dei sentimenti umani, De Palma trae spunto da una pellicola francese per dirigere con Passion un thriller "di maniera", che comunque spazza via la maggior parte dei suoi epigoni contemporanei; con uno sguardo e una voglia di giocare con le inquadrature, a 72 anni, ancora lucidissimi. Difficile comprendere, a questo proposito, gli attacchi e il sarcasmo fuori luogo di molta critica.
Venezia 2012: la parola ai premiati Recensione di Bella addormentata Recensione di The Master Recensione di Pietà
Per quanto concerne il Festival del Film di Roma, il discorso è ancora più complesso: il neodirettore Muller, sbarcato direttamente dal Lido e accompagnato dalle ben note polemiche, ha avuto solo quattro mesi per assemblare un programma che aveva l'ambizione di ripensare il senso stesso della manifestazione. Considerate le difficoltà, le criticità nel gestire un palcoscenico come quello romano (ben diverso da quello del Lido) e l'eredità di una manifestazione che ha finora stentato a trovare una sua identità forte, il risultato è a nostro avviso più che positivo: all'Auditorium abbiamo visto quest'anno, per la prima volta, un concorso con un senso e un'organicità, che nel carattere eterogeneo della selezione ha ribadito la sua voglia di parlare di cinema, a 360 gradi: dalla commedia luccicante e coloratissima di Roman Coppola A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III al gioco al massacro di un Takashi Miike che con Lesson of the Evil continua a proporre il suo cinema senza compromessi; dall'incursione nella Cina mainland di un Johnny To in stato di grazia con Drug War al complesso gioco metacinematografico di Eternal Homecoming di Kira Muratova, e alle fascinose storie femminili di Spose celestiali dei Mari di pianura, raccontate dall'occhio, a metà tra l'antropologico e il poetico, di Aleksei Fedorchenko. L'accusa alla manifestazione di Muller, che pure abbiamo letto, di essere un "festival per soli cinefili" (qualsiasi cosa ciò siginifichi) è messa in crisi dalla presenza in cartellone (fuori concorso) di un titolo come Jimmy Bobo - Bullet to the Head: ipercinetico, autoironico ed entusiasmante incontro tra due mostri sacri dell'action movie (e non solo) come Walter Hill e Sylvester Stallone. La stessa nuova, articolata sezione CimemaXXI ha mostrato chiaramente la volontà degli organizzatori di spaziare in territori "altri", in cui il cinema esprima un rapporto con i nuovi linguaggi da un lato (Tricked di Paul Verhoeven e Goltzius and the Pelican Company di Peter Greenaway) e con la storia e le radici dall'altro (Centro Histórico, diretto da Aki Kaurismäki, Pedro Costa, Víctor Erice e Manoel de Oliveira, e il brasiliano Avanti popolo di Michael Wahrmann). Considerata pure la presenza a Roma di una buona fetta di quella stampa internazionale che, negli anni passati, ha sempre snobbato la manifestazione capitolina, appare decisamente fuori luogo la definizione di "flop" rivolta da più parti al festival mulleriano: ciò, va detto, nonostante una premiazione che ha fatto discutere, col provocatorio ma riuscito Marfa Girl ad aggiudicarsi il Marc'Aurelio d'Oro, e soprattutto col doppio premio (al regista Paolo Franchi e all'interprete Isabella Ferrari) al velleitario e fischiatissimo E la chiamano estate. Un atteggiamento comunque censurabile, quello tenuto da buona parte della stampa nei confronti di Franchi e soprattutto dell'attrice protagonista; fatti oggetto, durante la premiazione, di insulti e contestazioni forse più appropriate in una cornice calcistica che in quella di un festival cinematografico. La contestata pellicola di Franchi resta, comunque, solo uno dei molti titoli italiani della selezione, divisi tra le sezioni principali e quella dedicata di Prospettive Italia: mentre in quest'ultima, dal carattere competitivo, abbiamo visto assegnare il premio a un'opera interessante (anche se imperfetta nella messa in scena) come Cosimo e Nicole di Francesco Amato, il concorso ha accolto pellicole quali il notevole Alì ha gli occhi azzurri (premio speciale della Giuria) duro e antiretorico esordio nel lungometraggio di Claudio Giovannesi, e il gustoso, almodovariano Il volto di un'altra, diretto da un Pappi Corsicato sempre fantasioso e cinefilo.Roma 2012: Marco Muller presenta la giuria della settima edizione Recensione di Marfa Girl Recensione di Bullet to The Head Roma 2012: Paolo Franchi anima il festival con E la chiamano estate
Una manifestazione che invece continua a mantenere una fisionomia riconoscibile, nonostante la "minaccia" rappresentata quest'anno dalla vicinanza di date con la kermesse romana (un problema, questo, che andrà evidentemente risolto) è il Torino Film Festival: un'edizione, questa del 2012, che ha fatto discutere soprattutto per il gesto di Ken Loach, che ha deciso di non ritirare il Gran Premio Torino a lui assegnato in solidarietà ai lavoratori precari del Museo Nazionale del Cinema. Una decisione, quella del regista inglese, che ha provocato una coda di polemiche con l'organizzazione del festival, e che ha finito quasi per offuscare la rinnovata validità della proposta della manifestazione: tra la selezione principale, articolata nel concorso e nella sezione Festa Mobile, il focus Rapporto Confidenziale (quest'anno denominato Ossessione&Possessioni) e la notevole retrospettiva dedicata a Joseph Losey, il festival torinese continua a proporre ottimo cinema, svincolato da logiche meramente autoriali o di genere e tale da conservare il suo consistente nucleo di spettatori. Una proposta come sempre ricca e variegata, quella della manifestazione torinese (la cui direzione passerà il prossimo anno dalle mani di Gianni Amelio a quelle di Paolo Virzì): aperta dall'esordio alla regia di Dustin Hoffman con la commedia Quartet, impreziosita da alcune pellicole provenienti da Cannes (il già citato Holy Motors, il dramma di produzione saudita La bicicletta verde) e comprendente, tra le opere più attese del suo cartellone, i nuovi lavori di Jennifer Chambers Lynch e Rob Zombie (gli inquietanti Chained e Le streghe di Salem), il nuovo film di Sion Sono The Land of Hope, dedicato al disastro nucleare di Fukushima, la commedia poi approdata in sala Ruby Sparks e il dramma in costume Anna Karenina. Ad aggiudicarsi il premio per il miglior film è stato quest'anno l'intenso Shell, dramma generazionale che rappresenta l'esordio alla regia dello scozzese Scott Graham, mentre il premio speciale della giuria è andato, con un ex-aequo, all'inusuale documentario Noi non siamo come James Bond di Mario Balsamo, e all'indipendente americano Pavilion, pellicola diretta dal filmaker ed educatore Tim Sutton e incentrata sui temi dell'adolescenza.Torino 2012: uno sguardo sul cinema che verrà con passione e vitalità Torino 2012: Ken Loach spiega le ragioni della sua assenza Recensione di Quartet Recensione di Shell