Semplicemente descrivendo te stesso come nero hai intrapreso una strada verso l'emancipazione, ti sei impegnato a combattere contro tutte le forze che cercano di usare il tuo essere nero come un marchio che ti identifica come una creatura sottomessa.
In un saggio scritto nel 1971 Stephen Biko, leader del Black Consciousness Movement e martire della lotta contro l'apartheid, sottolineava la necessità di rivendicare la propria blackness come primo, indispensabile passo per il riconoscimento dei diritti dei neri in Sud Africa. E sul concetto di blackness, ovvero l'insieme degli elementi che contribuiscono a comporre la cosiddetta "identità nera", negli ultimi anni il cinema americano ha lanciato diversi spunti di discussione: dal caso paradigmatico di Get Out di Jordan Peele, totalmente imperniato sull'identità nera nell'America odierna, a quello recentissimo di Green Book, uno dei film più popolari - e più controversi - del 2018.
Ambientata nel profondo Sud degli Stati Uniti all'inizio degli anni Sessanta, la commedia di Peter Farrelly, approdata pochi giorni fa nelle sale italiane, si è rivelata uno dei titoli di punta della stagione: tre Golden Globe, cinque nomination agli Oscar, il Premio del Pubblico al Festival di Toronto e incassi in rapida crescita in virtù di un eccellente passaparola. Ma come rilevato nella nostra recensione di Green Book, quello di Farrelly è anche uno dei film più divisivi dell'anno: in molti, tra critici e cinefili, lo hanno bollato come un'opera schematica se non addirittura retrograda, che si limiterebbe a recuperare (a ruoli invertiti) il modello di A spasso con Daisy di Bruce Beresford. C'è un elemento, tuttavia, che nei giorni scorsi ha creato un tristissimo "corto circuito" fra cinema e attualità: un elemento che riguarda le uniche due scene in cui il personaggio di Don Shirley subisce violenze e soprusi fisici. Prima Don, interpretato da Mahershala Ali, viene picchiato in un bar a causa del colore della sua pelle; in seguito verrà maltrattato e ammanettato dalla polizia, che lo ha sorpreso insieme a un altro uomo.
Jussie Smollett: una storia di ordinario razzismo
Il 29 gennaio si è diffusa la notizia dell'aggressione, a Chicago, contro Jussie Smollett. Il suo nome, magari non famosissimo in Italia, è ben più conosciuto in America: Jussie, trentasei anni, californiano, dal 2015 veste i panni del cantante Jamal Lyon in una delle serie televisive più seguite al di là dell'Atlantico, Empire, e si prepara a far uscire il suo primo album. All'uscita da un fast food, in tarda serata, Jussie Smollett è stato aggredito da due individui coperti da un passamontagna, i quali gli hanno lanciato addosso della candeggina e gli hanno infilato un cappio attorno al collo, rivolgendogli insulti razzisti e urlando lo slogan trumpiano "MAGA country" (MAGA è l'acronimo di Make America Great Again). Un episodio che ha suscitato un'ondata di indignazione, e la cui risonanza è legata sia alla notorietà di Smollett, sia ai motivi per cui è stato scelto come vittima.
Jussie Smollett, infatti, incarna entrambi gli aspetti alla radice della maggior parte degli hate crime: è afroamericano ed è omosessuale. Non solo: il pubblico tende a identificarlo con un personaggio, il Jamal di Empire, che è anch'egli un giovane divo in ascesa e apertamente gay. In sostanza Smollett, così come il rapper Frank Ocean, rappresenta il bersaglio perfetto per chi ha fatto delle discriminazioni e dell'odio le proprie ragioni di vita: il simbolo da abbattere proprio a causa della sua celebrità. È il sintomo di un razzismo che non si manifesta più solo come un atto silenzioso e strisciante, ma nel solco dell'orgoglio rabbioso e feroce del movimento dei suprematisti bianchi; gli stessi che, nell'agosto 2017, si sono riuniti sventolando bandiere naziste a Charlottesville, in Virginia, dove uno di loro ha investito con la sua auto i partecipanti ad un corteo antirazzista, uccidendo la trentaduenne Heather D. Heyer.
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Da BlacKkKlansman a Beale Street, l'anno d'oro del cinema black
La sfilata dei neonazisti di Charlottesville e l'attentato del 12 agosto sono le sequenze che chiudono l'ultimo film di Spike Lee, BlacKkKlansman, premiato al Festival di Cannes, distribuito nelle sale americane nel primo anniversario del rally di Charlottesville e candidato a sei premi Oscar, tra cui miglior film. Anche BlacKkKlansman, come Green Book, è basato su una vicenda reale: l'infiltrazione di agenti della polizia del Colorado in una divisione del Ku Klux Klan, in un periodo - i primi anni Settanta - segnato da forti tensioni razziali. Pur essendo accomunati dalla denuncia del razzismo nel recente passato dell'America, nonché dall'amicizia fra un co-protagonista bianco e uno nero, Green Book e BlacKkKlansman non potrebbero essere più diversi: il primo fa leva sulla "buona coscienza" dei bianchi mediante la figura del Tony Vallelonga di Viggo Mortensen, vero eroe del film; l'opera di Lee è ben più dura e caustica e, nell'epilogo, si scaglia in un'esplicita invettiva contro Donald Trump e i suprematisti dell'ultra-destra.
Ma fra i vari candidati agli Oscar 2019, Green Book e BlacKkKlansman non sono gli unici titoli che mettono al centro del racconto dei personaggi di colore. L'Academy non ha potuto ignorare Black Panther di Ryan Coogler, assoluto campione d'incassi del 2018 negli USA (settecento milioni di dollari) e autentico fenomeno di costume, diventato il primo cinecomic ad entrare in lizza per l'Oscar come miglior film (sette nomination in tutto). Mentre numerosi premi e tre candidature agli Oscar sono stati attribuiti a Se la strada potesse parlare di Barry Jenkins, trasposizione del romanzo If Beale Street Could Talk di James Baldwin: la storia d'amore fra due giovani afroamericani nella New York degli anni Settanta, messa in scena come un sofisticato e trattenuto melodramma la cui eleganza estetica fa da contraltare alle ingiustizie subite dalla coppia di protagonisti.
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Gli Oscar, la Black Consciousness e il caso Moonlight
Di regola, agli Oscar e dintorni, la presenza di un tema sociale rilevante costituisce un discreto fattore di vantaggio; ma se questa tendenza può indurre talvolta a riservare particolare attenzione a determinati film (si pensi a titoli di impronta didattica e dallo spirito antirazzista, come Selma - La strada per la libertà o Il diritto di contare), ci sono altre considerazioni di cui tenere conto. Innanzitutto, gli Oscar si inseriscono all'interno di un contesto storico e politico di cui riflettono inevitabilmente influssi ed istanze; rispecchiano, in sostanza, lo "spirito del tempo", e sarebbe assurdo pretendere il contrario. La scelta di Black Panther, BlacKkKlansman e Green Book fra i candidati come miglior film è dunque emblematica di un'esigenza sempre più pressante: una maggiore visibilità per gli afroamericani (anche nell'universo dei supereroi) e per il dibattito legato alla questione razziale.
In secondo luogo, tale discorso comporta un rischio ulteriore: quello di sottovalutare il valore di alcune opere il cui successo è troppo spesso bollato come il mero frutto di una corrente politica favorevole. Un caso paradigmatico è quello di Moonlight, premio Oscar come miglior film del 2016: se il coming of age diretto da Barry Jenkins è stato adorato dalla critica americana e dai membri dell'Academy, sarebbe sbagliato ricondurre tale entusiasmo solo alla sua importanza (innegabile) nella cornice della cultura black, negandone a priori i meriti artistici. Partendo da questo assunto, si può passare ad analizzare Moonlight come un tassello fondamentale della succitata Black Consciousness: la cronaca di un percorso esistenziale calato nella comunità nera di Miami, e per di più intrecciato a una presa di coscienza omosessuale che Jenkins e i suoi attori restituiscono con sensibilità illuminante.
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Le storie dell'altro
"La Black Consciousness è in sostanza la realizzazione, da parte dell'uomo nero, della necessità di radunarsi con i suoi fratelli intorno alla causa della loro oppressione - il colore della pelle - e di operare come un gruppo per liberarsi dalle catene che li legano alla servitù perpetua. Cerca di dimostrare la bugia che il nero sia un'aberrazione dal 'normale', che è bianco"; e nelle parole di Stephen Biko, la "coscienza nera" passa attraverso "i loro sistemi di valori, la loro cultura, la loro religione e la loro visione della vita". E ieri come oggi, quale miglior veicolo dell'arte - e quindi del cinema - per diffondere la cultura e la visione della vita propri di una comunità? Perché se desideriamo davvero che alcuna minoranza sia più confinata in uno stato di emarginazione e di subalternità, dobbiamo ripartire anche da qui: dalla visibilità per queste minoranze. Quella visibilità che è fonte di conoscenza, di confronto e soprattutto di empatia.
Che si tratti dell'infuocata ricostruzione storica di The Birth of a Nation e Detroit, della satira a tinte horror di Get Out, delle invettive di Spike Lee, del romanticismo di Barry Jenkins o perfino delle avventure di un supereroe di colore, la lotta ai pregiudizi e al razzismo passa pure dal cinema: un modo per riconoscere che l'altro (qualunque valenza vogliamo dare a questa parola) esiste, fa parte della nostra società e ha da offrirci esperienze, racconti, riflessioni che non possono far altro che arricchirci. In America, dove un po' anche grazie a Hollywood (e agli Oscar) si intravedono segnali di speranza; e da noi in Italia, dove la retorica xenofoba contro i migranti e l'assenza di una reale visibilità per chi viene percepito come 'diverso' pesano quanto macigni sulla prospettiva di una vera integrazione. E forse, per riscoprirci in tutto e per tutto esseri umani, basterebbe già questo: la volontà di ascoltare le storie dell'altro.