Nelle ultime settimane sono andate in onda la miniserie Big Little Lies - Piccole grandi bugie e la prima stagione di Feud, nuova serie antologica targata Ryan Murphy, mentre dall'8 maggio è visibile anche in Italia la terza annata di Fargo. Su Netflix è invece disponibile da febbraio Santa Clarita Diet, e a fine maggio arriverà la quinta stagione di House of Cards. Tutti questi progetti sono accomunati dalla presenza, nei ruoli principali, da interpreti come Nicole Kidman, Kevin Spacey, Susan Sarandon, Ewan McGregor e Drew Barrymore. Attori di un certo spessore, legati al grande schermo, che una ventina d'anni fa avrebbero forse sdegnato partecipazioni televisive più lunghe di una semplice guest appearance o, al massimo, un progetto compiuto di pochi episodi (per Big Little Lies, ufficialmente avviato come miniserie, si parla di una possibile continuazione, mentre la struttura di Fargo consente ai personaggi di ritornare dopo la stagione di loro competenza, e i progetti antologici di Murphy tendono ad avere attori che tornano da un'annata all'altra). Cos'è successo, quindi, per far sì che il piccolo schermo passasse da "serie B" a un'alternativa valida da praticare in contemporanea alla carriera cinematografica, e non prima o dopo? Per rispondere passiamo in rassegna le tappe di un'evoluzione che ha cambiato entrambe le forme d'arte.
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Non si torna indietro
Tradizionalmente la televisione era considerata un primo passo, la gavetta necessaria per accumulare esperienza recitativa prima di essere pronti per il cinema. Un percorso che ha fatto parte delle carriere di Clint Eastwood (Rawhide), Michael Douglas (Le strade di San Francisco), Bruce Willis (Moonlighting), Denzel Washington (A cuore aperto) e George Clooney (E.R. - Medici in prima linea), per citare solo alcuni esempi. Tutti attori che, una volta fatto il salto di qualità, non si sono praticamente più voltati indietro, fatta eccezione per ospitate speciali come ce ne sono ancora oggi. Questo soprattutto negli Stati Uniti, mentre nel Regno Unito la distinzione fra i due media, in termini di qualità e prestigio, tende ad essere quasi inesistente (basti pensare a Helen Mirren che ha continuato a girare Prime Suspect - più una serie di lunghi film TV che un vero e proprio serial, lo ammettiamo - fino al 2006). A rendere parzialmente giustificabile lo snobismo hollywoodiano è senz'altro il fatto che, per anni, la televisione non avesse veramente i mezzi per competere con le produzioni più ambiziose realizzate per il grande schermo (e non è un caso che opere mastodontiche - anche in termini di durata - come Ben Hur siano nate proprio negli anni in cui la TV cominciò ad imporsi, poiché questi kolossal erano qualcosa che il pubblico doveva per forza vedere in sala), almeno fino all'avvento di realtà cable come HBO e Showtime.
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Doppia rinascita
Alla fine degli anni Novanta ci sono stati i primi passi verso una nuova direzione, guarda caso all'interno della stessa famiglia: Martin Sheen, divo degli anni Settanta ormai ridotto a ruoli minori in prodotti non sempre eccelsi, è diventato il Presidente degli Stati Uniti in West Wing, mentre il figlio Charlie Sheen, desideroso di reinventarsi dopo l'ennesimo scandalo legato alla sua vita privata, ha sostituito Michael J. Fox come protagonista di Spin City (un altro divo "scomodo", Robert Downey Jr., è stato reclutato dagli autori di Ally McBeal nel medesimo periodo). Questo ha iniziato ad aprire le porte a chi era in cerca di ruoli succosi che al cinema, soprattutto per questioni di età, scarseggiavano: nel 2012, quando gli è stato chiesto perché avesse accettato di recitare nella sfortunata serie Luck, un attore come Dustin Hoffman ha candidamente ammesso che a settant'anni era difficile trovare parti da protagonista altrove. Un problema di cui sono consapevoli soprattutto le donne, convenzionalmente ritenute meno commercialmente forti una volta superata la soglia dei quarant'anni. Non è quindi un caso che attrici del calibro di Kathy Bates, Glenn Close e Jessica Lange abbiano tratto vantaggio dalle nuove possibilità offerte dalla cosiddetta televisione "di qualità".
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Il "nuovo cinema"
Alcuni anni fa Steven Soderbergh aveva commentato la sua decisione di passare al piccolo schermo con The Knick affermando che il cinema d'autore americano fosse ormai di competenza della televisione. Un'opinione condivisa anche da attori come Ewan McGregor, che l'anno scorso al Festival di Zurigo si è lamentato della progressiva scomparsa dei film dal budget medio in un mercato dove - almeno per quanto concerne le major - vengono privilegiati i due estremi: costi ridottissimi (principalmente per i film horror) o stratosferici (blockbuster di vario tipo). Non c'è quindi da sorprendersi se l'attore scozzese, il cui scarso interesse per le superproduzioni è ben noto, ha accettato un doppio ruolo nella nuova stagione di Fargo. Quest'ultimo è l'esempio perfetto del tipo di televisione che può attirare l'attenzione anche dei divi ancora affetti da una certa reticenza nei confronti dello schermo più piccolo: in quanto show antologico, impostato come se ogni stagione fosse una miniserie a sé stante (ma in alcuni casi, come appunto Fargo o American Horror Story, ci sono dei collegamenti poiché tutte le storie sono ambientate nel medesimo universo), è più come un lungo film, con riprese dalla durata non dissimile da quella di un lungometraggio dal budget medio-alto, e non un impegno a lungo termine che inciderebbe troppo sulla carriera cinematografica (ma anche quell'eventualità trae beneficio dalle serie cable, che hanno un numero ridotto di episodi e quindi richiedono in genere meno tempo, motivo per cui un attore come Dwayne Johnson può alternare blockbuster come Fast & Furious e la serie comica Ballers, in onda su HBO).
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Netflix e gli "ascolti" garantiti
Un ruolo non indifferente nella rivoluzione, per quanto riguarda gli attori, lo ha avuto anche il gigante dello streaming. Se infatti i network tradizionali, così come Hollywood, possono puntare su certi nomi di richiamo per vendere i loro prodotti, i risultati non sono sempre quelli sperati (vedi il recente esempio di The Grinder, cancellato dopo una stagione e costruito intorno al carisma di Rob Lowe). Netflix invece può contare su una certa fedeltà da parte degli utenti, a prescindere da contenuto e genere, e ha dato il via a House of Cards perché, in base ai loro algoritmi, c'era un pubblico abbastanza vasto per un progetto che univa Kevin Spacey e David Fincher. Una scommessa vinta che ha spianato la strada per prodotti come Grace and Frankie (con Jane Fonda), The Ranch (con Ashton Kutcher) e Marseille (con Gérard Depardieu), dimostrando il più delle volte che Netflix, insieme a HBO e FX, è la meta ideale per chi è alla ricerca di quelle parti veramente succose che sul grande schermo si fanno sempre più rare, almeno per quanto riguarda le produzioni mainstream americane. E quando questi ruoli si manifestano, difficilmente gli interpreti in questione se li lasciano scappare. Basta chiedere a Nicole Kidman, che a causa di Big Little Lies ha rifiutato - presumibilmente senza troppi rimpianti - una parte secondaria in Wonder Woman...
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