Nei primi anni ottanta la notorietà di Stephen King era in fase di rapida crescita, con adattamenti cinematografici delle sue opere affidati a registi e autori sempre più importanti. Nel 1976 Brian De Palma, reduce dagli apprezzati Obsession e Il fantasma del palcoscenico, realizza Carrie affidando il corpo della sua telecinetica protagonista a una Sissy Spacek in stato di grazia, con materna e mostruosa Piper Laurie al seguito. Il successo e la definitiva consacrazione giunge però con Shining, scelto da Stanley Kubrick in cima a una pila di romanzi horror che avrebbe voluto trasporre sul grande schermo per risollevarsi dal recente insuccesso finanziario di Barry Lyndon. Il racconto Il Baubau (The Boogeyman) trova la sua prima forma cinematografica in un corto (e in un lungometraggio del 2023, diretto da Rob Savage) ed è poi il turno di Creepshow, raccolta di cinque corti in cui King veste anche i panni di uno dei protagonisti (è il Jordy Verrill destinato a morire da solo nel terzo episodio). Un anno prima l'autore del Maine si era cimentato nella scrittura di Cujo, primo romanzo tradotto in lingua italiana e in qualche modo - grazie al riferimento al vice sceriffo Frank Dodd - legato alle vicende narrate ne La zona morta, uscito nel 1979.
Il quotidiano mostruoso
La materia kinghiana sembra accordarsi perfettamente alle esigenze di narrazione che subentrano con l'inaugurazione della nuova decade. Dalle macchine di sesso femminile che fanno, come ogni corpo femminile organico e inorganico, da varco per l'inferno (la Christine riletta da John Carpenter), alle scatole televisive di David Cronenberg (Videodrome) e Tobe Hooper (Poltergeist), ai telefoni di Murder by Phone, gli albori degli anni ottanta sono stati contrassegnati da un concitato interesse per le mutazioni degli oggetti domestici, ora deformati da interferenze ultraterrene e non più adatti ad assolvere alla loro funzione primaria. Cujo è a metà fra il quotidiano distorto, falsato, e le mostruosità che si stabiliscono in luoghi inospitali per l'essere umano: tanto vicino a Lo squalo (1975) di Steven Spielberg, malformazione naturale che mina la quiete di un piccolo centro abitato, e relativi epigoni, quanto prossimo ai corpi che, addetti alle azioni abitudinarie, impazziscono senza apparente ragione, il cane rabbioso di King rappresenta l'ordinario che assume tratti sconosciuti e diviene incontrollabile.
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Cujo: la rabbia e il contagio sociale
Lewis Teague aveva alle spalle una carriera da regista di circa dieci anni e, non meno importante, un film su una di queste creature selvatiche (Alligator, del 1980) quando gli fu affidato il progetto di Cujo, forse per affinità tematica e concettuale. Confinando i contenuti psicologici, sociali e politici più profondi e autoriali a cornice narrativa, starting point e sfondo delle vicende, nelle mani di Teague la storia di Cujo diventa cinema alla sua massima espressione ed efficacia possibile nell'ambito del genere thriller e horror, forte di una trama high-concept e di una tensione sapientemente accumulata attraverso la dialettica fra interni ed esterni. La rabbia del San Bernardo protagonista è un veicolo di contagio che parte dall'animale e finisce nell'essere umano, e si estende da La zona morta a Cujo attraversando il corpus dell'opera dell'autore come a completare una riflessione sull'inevitabilità di una malattia sociale che non risparmia nessuno. King parlava dell'impatto economico della fine degli anni settanta sui singoli individui della working class americana, ma parlava anche (come spesso era accaduto, fino a Shining, e come sarebbe ancora accaduto in futuro) del funzionamento delle relazioni e dell'urto fra le diverse identità che si scontrano nella corsa a obiettivi vitali diametralmente opposti, inconciliabili.
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Trasposizioni kinghiane
Ogni volta che si leggono le pagine di un'opera di King si ha l'impressione, che si materializza quasi come una certezza granitica, che si tratti di sostanza impossibile da trasporre per il cinema. Poi, puntualmente, si viene smentiti - e nel caso di Stephen King, davvero uno degli autori più "sfruttati" dal mezzo cinematografico, è ancor più vero - ma qualcosa, nel processo, si perde. Questo perché le indagini dell'autore non si limitano alla psiche umana di un singolo protagonista, bensì giungono a esplorare le intercapedini più profonde di ogni trauma percorrendo a ritroso le impronte del dolore famigliare mediante una scrittura quasi inconscia, estemporanea; e, allo stesso modo, si connette il singolo alla collettività per ricercare un senso di giustizia al fallimento della responsabilità e alla violenza del potere. In Cujo un po' di ciò che rende "kinghiano" un romanzo di King viene perso. In cambio, tuttavia, Teague compie un vero e proprio studio sul mezzo cinema. Alla Donna di Dee Wallace, volto preminente dell'horror e del fantastico di quel periodo fortunato (prima di E.T. e Critters l'avevamo vista anche nello splendido L'ululato di Joe Dante e ne Le colline hanno gli occhi), viene concesso il background che accomuna il suo personaggio a quello del libro, ma ciò che interessa davvero al pubblico è il modo in cui diviene eroina di una trasposizione di puro genere thriller, in cui la dimensione psicologica e introspettiva viene messa in secondo piano rispetto all'esigenza di fuga immediata dalla situazione di pericolo. E va benissimo così, perché Cujo funziona ancora oggi, alla perfezione, anche per questo. La storia del mostro, un cane che non possiede nulla di sovrannaturale e porta tutti i segni di una malattia reale, e della madre, costretta a proteggere se stessa e suo figlio all'interno di un'automobile presa d'assedio in piena estate, è universale e potrebbe essere appetibile allo spettatore di oggi quanto lo fu a quello di ieri. Non siamo più in aperti oceani, né nelle acque melmose di una palude che è dimora di pesci carnivori, o nella giungla; siamo all'interno di uno di quegli oggetti che costituiscono parte ormai inossidabile delle nostre routine, ma per qualche motivo non possiamo uscirne.
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L'eredità di Cujo nelle opere "stuck in one place"
Visto oggi, Cujo potrebbe aver fornito un importante spunto per la creazione di un linguaggio ideale per la realizzazione di opere "stuck in one place" analoghe, alcune kinghiane (The Mist, Il gioco di Gerald), altre meno dirette (Monolith, Upgrade, Detour) e altre che sono omaggi consapevoli e dichiarati: ricordiamo il furioso rottweiler di Don't Breathe, che sfonda l'automobile per azzannare Jane Levy, ma anche le jeep accerchiate dai leoni della savana in Prey, del 2007, o il più recente Beast. L'appeal e la forza perpetua di una simile struttura narrativa, capace di resistere allo scorrere del tempo e ai mutamenti artistici del cinema, risiede nella possibilità di sostituire l'apparente fulcro - il Cujo del titolo stesso - con qualsiasi altro ostacolo, naturale o artificiale, che possa determinare una reclusione forzata all'interno dell'abitacolo di una vettura.