Agli spettatori italiani, il nome di Cui Jian non dirà forse molto, ma in territorio cinese il regista di Blue Sky Bones è una vera e propria icona. Attivo sulla scena musicale fin dagli anni '80, Cui è forse la principale espressione del rock autoctono, eletto a simbolo dagli studenti in rivolta di Piazza Tiananmen e violentemente osteggiato dalle autorità nel corso di tutti gli anni '90. Un veicolo dell'espressione musicale più immediata, quella del rock, che in un contesto come quello della Cina moderna diventa rabbia anti-sistema; il suo passaggio dietro la macchina da presa, con un musical sui generis che tratta il delicato periodo della Rivoluzione Culturale, non poteva non destare curiosità.
Di questo suo lavoro d'esordio, presentato in concorso nella corrente edizione del Festival del Film di Roma, il cantante/regista ha parlato nell'incontro stampa dedicato, insieme a quello che, nell'occasione, è stato un suo collaboratore d'eccezione, il direttore della fotografia Christopher Doyle.
Qual è la relazione tra il suo film e la sua musica? E' la musica ad aver portato alla riuscita del film, o è successo piuttosto il contrario?
Cui Jian: Questo film l'ho fatto sullo sfondo del mio precedente album. Mentre scrivevo la sceneggiatura, avevo in sottofondo le musiche: sono state quelle a dare la spinta a ciò che volevo raccontare. Non è un musical, ma non è neanche un film separato dalla musica.
Christopher Doyle: La grande sfida era sul come definire questo film: non è un musical, ma cerca di avere l'energia della musica, e di esprimere come la musica possa attraversare lo spazio ed il tempo. È un film fatto di musica, che ha l'energia della musica, ma non è un film su di essa.
Non teme che alcuni giovani spettatori possano non capire i messaggi del film nella sua forma?
Cui Jian: Eravamo preparati a questo, prima ancora di girare il film. Anch'io, come musicista, mi sono posto il problema dell'efficacia, di come arrivare al pubblico. Anche noi cinesi, spesso, non capiamo fino in fondo il messaggio di molti film occidentali, ma magari li troviamo comunque coinvolgenti. Magari, però, dopo un certo numero di visioni, il messaggio può comunque arrivare.
Christopher Doyle: Noi non chiediamo a un dipinto di esprimersi, di giustificare sé stesso, mentre al contrario i film devono rispettare dei canoni narrativi, rientrare in certe convenzioni di genere. Ma forse dobbiamo andare oltre queste limitazioni: lui ha voluto usare il cinema proprio per dire ciò che normalmente non riesce a dire con la sua musica.
Lei, che è un musicista, continua a sentire l'esigenza di lavorare creativamente con il cinema?
Sicuramente non mi allontanerò dalla musica, sono un musicista; ho rifiutato di dirigere film a contratto, perché non voglio fare il regista mestierante: io sono un musicista che vuole dialogare con il cinema in un rapporto che sia sempre stimolante.