Recensione The Oath of Tobruk (2012)

Da Bengasi a Tripoli, passando per i viaggi negli USA, in India, Turchia e Israele, Bernard-Henri Levy e il giornalista Gilles Hertzog seguono da vicino sia la parte militare che quella diplomatica della complessa vicenda libica, offrendone un resoconto il cui punto di vista appare evidente fin dal titolo.

Cronaca e (auto)celebrazione

Tra le pellicole presentate fuori concorso nella sessantacinquesima edizione del Festival di Cannes, un posto particolare lo occupa, soprattutto per il tema che tratta, questo The Oath of Tobruk. Aggiunto in un secondo momento al programma del festival, il documentario del filosofo e giornalista francese Bernard-Henri Levy è una sorta di diario cinematografico della recente rivoluzione libica che ha determinato la cacciata (e la fine) del dittatore Muammar Gheddafi; soprattutto, il film di Levy segue le fasi dell'intervento francese in appoggio al movimento di liberazione, sottolineando il ruolo della politica del suo paese (e dell'allora presidente Nicholas Sarkozy) nel determinare la risoluzione ONU che avrebbe poi portato al decisivo intervento armato in favore dei ribelli. Da Bengasi, città in cui la rivolta ebbe inizio, fino alla capitale Tripoli passando per i viaggi negli USA, in India, Turchia e Israele, Levy e il giornalista Gilles Hertzog seguono da vicino sia la parte militare che quella diplomatica della complessa vicenda libica, offrendone un resoconto il cui punto di vista appare evidente fin dal titolo: nella città di Tobruk è infatti presente un cimitero in cui sono sepolti 180 soldati francesi, e il giuramento del titolo (fatto da sei leader della resistenza libica) riecheggia quello fatto, durante la Seconda Guerra Mondiale, a Kufra, dove l'esercito della France Libre, dopo la sua prima vittoria sulle truppe tedesche, giurò di cacciare i nazisti dalla Francia.

Levy è da sempre personaggio controverso (in Italia ha provocato polemiche un suo articolo a favore dell'ex terrorista Cesare Battisti) e questo suo lavoro non contribuirà certo a smentire la sua fama. Già molto familiare col cinema (tra i suoi documentari, quelli dedicati alla guerra bosniaca A Day in the Death of Sarajevo e Bosna!, quest'ultimo già presentato a Cannes) il filosofo francese offre un resoconto affascinante, ma forzatamente enfatico e parziale, di una vicenda complessa e non ancora conclusasi. Il documentario è girato e montato con perizia, e offre lunghe e dettagliate riprese di campi di battaglia e città distrutte, insieme ad affascinanti totali del deserto libico; l'attento assemblaggio del materiale mostra la presenza di una vera e propria scrittura a monte del progetto. Al centro di tutto c'è sempre la figura dello stesso filosofo, che certo non fa niente per smentire le accuse di narcisismo da più parte rivoltegli: Levy rivendica, con orgoglio, il suo ruolo decisivo nell'aver convinto il presidente francese ad affrontare i rischi, e i costi, dell'intervento militare, la sua presenza ufficiale in tutte le occasioni diplomatiche legate al conflitto, il suo continuo lavoro di mediazione con i leader della rivolta e poi del governo provvisorio libico. Una presenza sempre in primo piano, quindi, rappresentata quasi come la voce intellettuale del popolo francese, favorita da una presenza fisica assolutamente caratteristica e da un certo carisma.
Ciò che lascia perplessi, di The Oath of Tobruk, è legato alla concezione stessa del documentario, ovvero il suo smaccato carattere parziale e in larga parte (auto)celebrativo. La politica interventista, ma soprattutto la forte accelerazione data ad essa dal governo francese, non trova nel film l'ombra di un dubbio o di una semplice, ipotetica obiezione; la stessa idea di seguire gli eventi direttamente "sul campo" (tipica di Levy, che si definisce uomo "di parole e di azione") è subordinata a una ricostruzione che non ha mai dubbi nel presentare l'intervento internazionale come un necessario passo nel lungo cammino di un popolo verso la democrazia. Non è ovviamente nostro compito entrare nel merito delle questioni politiche legate al conflitto, data la complessità della materia trattata e la valutazione meramente cinematografica da attribuire al film; ciò che ci preme, però, è sottolineare la mancanza di problematicità di un documentario come quello di Levy, la sua concezione "a tesi" che lo avvicina in parte (senza averne però il ritmo e l'impatto squisitamente cinematografico) a quelli del collega d'oltreoceano Michael Moore. E non è forse un caso, in quest'ottica, l'annunciato acquisto dei diritti di distribuzione statunitense da parte della Weinstein Company; l'esito possibile è quello di una prossima uscita nelle sale americane, destinata prevedibilmente a suscitare discussioni e prese di posizione delle più varie.

Movieplayer.it

3.0/5