La storia del rapporto tra Wes Craven e il cinema è singolare, come del resto tutta la sua produzione, sempre a metà fra il capolavoro e il quasi ridicolo, sempre a cavallo dei generi, e sempre vissuta nel tentativo di superare il genere horror, a cui sente di appartenere, ma a cui teme di finire incatenato. Non è un caso, quindi, che il suo nuovo Red Eye sia la sua prima incursione nel campo del thriller psicologico.
Personaggio contraddittorio, nel modo più classico che si possa immaginare: in molte interviste nega che il suo passato abbia influenzato in qualche modo i film che ha girato, ma poi afferma che la storia personale di un' artista resta nelle sue creazioni come un segno indelebile. In effetti, è difficile negare che il modo di Craven di avvicinarsi al cinema sia stato decisamente particolare, rispetto a quello di altri registi della sua generazione. Fino all' età di ventuno anni, non era mai entrato in una sala cinematografica. La sua educazione era stata rigidamente religiosa, e i film, insieme alla musica, gli erano stati preclusi sin da bambino. Un'immagine forze eccessiva e romanzata nel tempo come quella della decisione di trasgredire e di andare a vedere di nascosto Il buio oltre la siepe; vera o falsa che sia, di certo è un'immagine efficace e romantica per esprimere una folgorazione.
Anche il suo approccio al cinema come professione non è lineare, e nemmeno deriva da un progetto ben preciso. Craven insegnava filosofia all' università, non proprio l'ultimo dei lavori possibili. Un gruppo di studenti gli chiese un giorno di aiutarli a girare un parodia della serie tv Mission: impossibile, da proiettarsi nell' istituto. Il piccolo esperimento ebbe successo e Craven, affascinato dal mondo del cinema, prese la decisione di lavorarci a tempo pieno, lasciando il posto di professore e impiegandosi come fattorino in uno studio di montaggio. Aveva trent' anni.
Il montaggio è una fase che ha sempre interessato e interesserà moltissimo Craven. Il suo lavoro di fattorino dura poco: diventa assistente al montaggio e, in quell' occasione, incontra la persona che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Si tratta di Sean S. Cunningham, futuro regista del celebre Venerdì 13. A Craven viene affidato l' incarico di sincronizzare i rumori di fondo di un film soft-core prodotto da Cunningham : finì per occuparsi del montaggio totale e non solo, visto che Sean aveva litigato con il regista ufficiale. Il film uscì nelle sale e fece buoni incassi e così la Hallmark, la compagnia che lo aveva finanziato, mise a disposizione di Craven e Cunningham cinquantamila dollari per realizzare un horror.
Questo atipico inizio di carriera può in qualche modo fornirci interessanti angolazioni interpretative del suo cinema e ci permette di leggere in questa chiave l'interesse di Craven verso una profonda riflessione sui meccanismi del mezzo cinematografico, riflessione palese nella trilogia di Scream e ancor prima nel suo ritorno alla saga di Nightmare, nel suo Nightmare nuovo incubo, ma sempre presente, anche se in maniera più sottile, in tutta la filmografia di questo regista. Il film che avrebbe dato inizio alla splendida stagione del new horror, scardinando i codici di un genere e aprendo la strada a uno stuolo di giovani registi, catturati dalla possibilità di mostrare sul grande schermo quello che nessuno aveva mai avuto il coraggio di far vedere, questo prodotto di serie b, girato nel giardino dietro casa di Cunningham, con la troupe ridotta all' osso, una sceneggiatura quasi inesistente, e quotidianamente riscritta durante la lavorazione, si intitola L'ultima casa a sinistra del 1972, cruento ed allucinato sorta di remake de La fontana della Vergine di Ingmar Bergman. La trama è identica, i personaggi sono più o meno gli stessi e lo stesso Craven ammette la filiazione diretta del suo film d' esordio da quello del regista svedese. Questo dimostra come la cinefilia di Craven serpeggi nella sua produzione sin dagli inizi e come Scream sia solo il culmine di un percorso volto a riconoscere, smascherare, descrivere e anche, perché no, destrutturare i codici della paura su pellicola. Come afferma Roy Menarini nel suo saggio La luce oltre lo schermo: un viaggio attraverso la cinefilia di Craven, o meglio, attraverso i campioni della sua attenzione al cinema del passato, può, crediamo, determinare un cospicuo ripensamento dell' opera craveniana nel suo complesso.
Anche nel suo secondo lungometraggio del 1976 , Le colline hanno gli occhi Craven ha come punto di riferimento la cinematografia, questa volta non europea, ma americana, del passato, e in particolare due generi: il road-movie di ascendenza cormaniana e il western, esibendone una visione rovesciata, in cui il mito della frontiera assume connotazioni inquietanti e diametralmente opposte all' ottimismo dei pionieri americani. Quella che Craven ci racconta in questi due primi film, on è infatti l' America del viaggio, degli immensi spazi aperti e della ricerca di se stessi, ma un' America popolata da tribù di uomini ridotti allo stato bestiale, pronti a massacrare nel peggiore dei modi gli ingenui pionieri dell' ultima ora, che partono convinti che la natura e l' uomo siano forze benigne e che invece si ritrovano a dover regredire per forza anche loro a uno stadio primitivo, per far fronte alla ferocia che gli si scatena contro. E' un 'America cattiva, perfida, in cui la gente sparisce e non viene più ritrovata, è un' America di provincia, che, lungi dall' essere idilliaca come spesso appare, nasconde segreti inconfessabili e tanfo di morte. L' America che proprio in quegli anni balzava agli occhi di tutti con sconcertante e dolorosa chiarezza nelle immagini provenienti dal Vietnam.
La riflessione di Craven continua e si amplia con la sua produzione successiva. E questa volta, il regista passa a esplorare il mito, dando ogni volta, una sua personalissima versione delle icone e dei sottogeneri che hanno reso grande il cinema dell' orrore. Mentre in film come Dovevi essere morta del 1986, Il Serpente e l'arcobaleno (1988) e La Casa Nera (1992) i riferimenti metacinematografici sono fin troppo chiari (evidente, per quanto riguarda il primo, la citazione diretta di Frankenstein; per quanto riguarda Il Serpente e l' arcobaleno, invece Craven guarda ai classici della RKO e, in particolare al classico del 1943 Ho camminato con uno zombie di Jacques Tourneur ; La casa nera, invece, è una rilettura in chiave black della tradizione gotica della casa infestata), è più difficile scorgerli in un film come Nightmare - dal profondo della notte che nel 1984 segna definitivamente la carriera del regista americano. Eppure, a ben guardare, è difficile non riconoscere in Freddy Krueger una rivisitazione e un' iperbole del Nosferatu (sia quello di Max Schreck e di F.W. Murnau, che quello di Klaus Kinski e di Werner Herzog) . Cosa, questa perfettamente visibile nella forma del corpo, incurvato, con la spina dorsale curva e piegata fino a quasi spezzarsi, nel guanto con le lame che sostituisce e modernizza le unghie lunghe del vampiro, nel viso scavato, mortuario, in una ghignante faccia da mostro, ustionata dalle fiamme, esacerbata dalla vita ultraterrena (ancora Roy Menarini). E, insieme al ricordo del mito del vampiro, vive nel personaggio di Fred (prima che diventi il più amichevole Freddy nei numerosi sequel), anche un' altra figura fondamentale per il cinema e l' intera cultura horror: quella dell' uomo nero. Fred, infatti, grazie al genio di Craven, diventa l' archetipo moderno del babau che turba il sonno dei bambini, in un film che ha indubbiamente segnato un epoca del genere.
Nei rimanenti film horror, la tendenza metacinematografica di Craven si rivela pienamente: Nightmare nuovo incubo e la trilogia di Scream sono delle vere e proprie manifesti in tal senso di una rinnovata ricerca dell'ammiccamento e del gioco meta-linguistico.
L' ultimo (allora) capitolo della saga di Kruger risponde alla forte esigenza del regista di riappropriarsi della sua creatura, snaturata da una serie di seguiti che avevano privato il personaggio di tutte le sue caratteristiche più profonde, fino a renderlo una macchietta inoffensiva e demenziale. Non a caso il suo ultimo Freddy irrompe nella realtà, prendendosela con gli attori, il regista e con chiunque abbia partecipato alla realizzazione dei suoi film. Wes Craven, Robert Englund e l'eroina Heather Langenkamp interpretano se stessi e sono alle prese con un Krueger molto più cattivo e spietato rispetto agli episodi precedenti della serie. In questo modo, si verifica il paradosso di una film che pretende di concludere definitivamente una serie e, contemporaneamente, si pone in aperto e consapevole conflitto con essa.
Nightmare nuovo incubo è un film riuscito però solo in parte. Il ragionamento di Craven sui concetti di serie, finzione, orrore, è troppo freddo, cerebrale e distaccato per piacere ai giovani appassionati dell' horror. Il regista, nella sua lucidità progettuale, dimentica la tensione e gli effetti di facile presa sul pubblico. Nella trilogia di Scream (specie nel primo film) imparerà la lezione: la riflessione cinematografica diventa un gioco divertente, ironico, una strizzatina d'occhio agli spettatori e l' intento di spaventare non viene mai lasciato in secondo piano rispetto al desiderio di indagare i meccanismi di un genere. Scream risulta quindi essere la sintesi perfetta fra racconto e analisi di esso, perché i vari piani di lettura non si disturbano a vicenda, ma si integrano perfettamente fra loro e allo spettatore viene offerta la possibilità di un processo di identificazione piuttosto complesso: lo stratagemma del quiz iniziale, in questo senso, è indicativo. Da un lato, si esce dal film per rispondere alla domanda, e dall' altro, si viene precipitosamente rigettati nei meccanismi del terrore, perché la risposta sbagliata significa morte.
Distacco e divertimento, seguiti poi dal brusco ritorno alla partecipazione emotiva, con una serie di "botte allo stomaco" indimenticabili, per una trilogia che ha di nuovo cambiato un genere in continua evoluzione-involuzione, visto il moderno ricorso alla pratica del remake. Sarà un casò che proprio Craven infatti è tornato a parlare di licantropi nel suo francamente deficitario Cursed e soprattutto curerà la produzione del rifacimento del suo Le colline hanno gli occhi? Crediamo proprio di no!