Elegante, raffinato, malinconico. Parole che ben si adattano all'anime di culto del 1998, ma che non ritroverete in questa recensione di Cowboy Bebop" nella sua versione live action targata Netflix. Non per una mera questione qualitativa, non soltanto almeno, ma perché la serie** disponibile in piattaforma dal 19 novembre 2021 ha scelto una via diversa, più pulp e sopra le righe, per rendere la storia, cercando un difficile equilibrio tra omaggio all'anime e rivisitazione delle sue ambientazioni, personaggi e situazioni. L'adattamento live action firmato da André Nemec vuole celebrare l'opera originale, per la quale è evidente un amore totale e forse soverchiante, ma nel ricalcarne alcuni aspetti non va che sottolineare anche le differenze. E in queste ne esce irrimediabilmente sconfitto.
In principio era un cult
Ma partiamo dall'inizio, da quel che è stato Cowboy Bebop nella sua indimenticabile forma animata: firmata da Shinichiro Watanabe, trasmessa in patria tra il 1998 e il 1999 (da noi su MTV tra il 2001 e il 2003), si è rivelata da subito come un'opera unica nel panorama dell'animazione giapponese, una space opera a ritmo di jazz che raccontava le imprese del protagonista Spike Spiegel, ex affiliato del Red Dragon, e del suo socio Jet Black, due cacciatori di taglie che viaggiano a bordo della nave spaziale Bebop e che accoglieranno, loro malgrado, altri compagni d'avventura nel corso degli episodi, a cominciare dal corgi Ein e da Faye Valentine. Personaggi che, nel corso dei 26 episodi dell'anime, vediamo affrontare situazioni pericolose e spesso poco remunerative, ma anche questioni irrisolte del proprio passato, che ne definiscono la splendida caratterizzazione, merito di una scrittura matura e attenta ai risvolti psicologici.
Cowboy Bebop: perché lo amiamo ancora come vent'anni fa
Dal disegno al casting
La Cowboy Bebop di Netflix, prodotta insieme a Tomorrow Studios e Midnight Radio, parte da qui, dal medesimo manipolo di improbabili (anti)eroi, individuando in John Cho, Mustafa Shakir e Daniella Pineda i volti adatti a rendere su schermo Spike, Jet e Faye Valentine, ma sceglie parallelamente di dar maggior spazio a Julia e Vicious, i personaggi che vengono dal passato del protagonista e condiscono la storyline principale della stagione, affidando questi ruoli a Elena Satine e Alex Hassell. La resa dei protagonisti è stata oggetto di reazioni contrastanti quando le prime immagini sono state diffuse online, con curiosità da una parte, ma anche scetticismo per quella sensazione da cosplay che qualcuno ha percepito. Sensazioni contrastanti che purtroppo permangono anche nel corso della visione, perché il tono scelto, che è sopra le righe, ironico ed eccessivo, fa sì che si abbia la percezione di un intento parodistico che probabilmente è assente.
Il tono del live action Netflix
Sia chiaro: un adattamento non deve necessariamente essere uguale all'originale, si può scegliere una via diversa per raccontare le medesime situazioni e il tono scelto da André Nemec, con il suo look molto pop e le sue derive pulp, può rappresentare una possibile chiave di lettura per le avventure di Spike Spiegel e compagni. Il problema è che questa rimodulazione nel tono accompagna una riproposizione fedele di altri aspetti dell'anime, a cominciare dalla sigla riprodotta inquadratura per inquadratura, il primo contenuto mostrato al pubblico durante il Tu-Dum, e alcuni snodi narrativi e avversari mutuati direttamente dall'originale. Oltre ovviamente alla musica, che porta la stessa firma dell'anime, quella della compositrice giapponese Yoko Kanno, insostituibile e imprescindibile se si parla di Cowboy Bebop. Il risultato è un ibrido che può spiazzare gli affezionati del Cowboy Bebop animato più che gli spettatori a digiuno dell'originale, proprio per questa alternanza tra fedeltà e libertà che impedisce allo spettatore consapevole del materiale di partenza di lasciarsi trascinare dalla dignità propria dell'adattamento.
25 migliori anime su Netflix da vedere
Un'impresa impossibile
Ed è un peccato, perché a fronte di quell'impresa impossibile che tutti avevamo ipotizzato all'annuncio dell'adattamento live action, la serie dimostra che i presupposti per compiere un piccolo miracolo ci sarebbero potuti essere, perché il lavoro fatto da André Nemec cerca e in parte trova una propria forma e dignità autonoma che può raggiungere e coinvolgere un pubblico nuovo, soprattutto sul piano visivo in termini di fotografia pop e sequenze d'azione elaborate (ma purtroppo non sempre allo stesso livello qualitativo). Per questo sarebbe stato meglio prendere ulteriormente le distanze dal materiale di partenza, levare gli ormeggi, navigare verso territori narrativi inesplorati e rendere l'omaggio all'anime indiretto, implicito e meno vincolante. E forse più efficace.
Conclusioni
Non nascondiamo una certa dose di rammarico al termine della recensione di Cowboy Bebop, perché ci è sembrato che la serie live action Netflix non sia riuscita a trovare un equilibrio tra la propria identità, sia visiva che di tono, e l’omaggio all’anime a cui si ispira. Il diverso approccio nello spirito, eccessivo e sopra le righe, si fa ancor più evidente laddove situazioni specifiche ed altri elementi (la musica, in primis, a partire dalla sigla) sono riproposti fedelmente. Una menzione speciale fa fatta per il cane Ein, che si conferma un gran personaggio anche nella sua versione live action.
Perché ci piace
- La Cowboy Bebop live action cerca e in parte trova una propria forma e dignità autonoma.
- Le musiche, ancora di Yoko Kanno: sicurezza e continuità con l’originale.
- Una menzione speciale per il cane Ein.
Cosa non va
- L’azione elaborata e il look pop non sono proposti sempre con lo stesso livello qualitativo.
- Il tono sopra le righe, ironico ed eccessivo, fa sì che si abbia la percezione di un intento parodistico, probabilmente assente.