Copenhagen Cowboy è il proseguimento naturale di Too Old to Die Young

Perché Copenhagen Cowboy, la serie Netflx firmata Nicolas Winding Refn, è per tanti motivi il proseguimento naturale di Too Old to Die Young, il debutto del regista danese nell'universo seriale.

Copenhagen Cowboy è il proseguimento naturale di Too Old to Die Young

Ci siamo concessi la possibilità di scrivere un articolo spoiler free viste le tematiche trattate. Scusate la poca delicatezza, ma è meglio avvisarvi fin da adesso perché si comincerà con questo trend già dalla prossima riga.
C'è un momento in Too Old to Die Young, il debutto, datato 2019 e disponibile su Prime Video, nell'universo seriale di Nicolas Winding Refn (o NWR, come gli piace essere chiamato da un po' di tempo a questa parte), in cui Diana (Jena Malone) guarda in televisione un "uomo strano" commentare la curiosa testimonianza di una (ripetiamo, una) pilota militare a proposito del suo contatto con un UFO.

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Too Old To Die Young: Jena Malone in una scena della serie

Nello specifico si trattava di un oggetto a forma di pillola, emanatore di "una strana sensazione di pace" coadiuvata dal messaggio che gli esseri a bordo cercavano di comunicare telepaticamente alla fortunata (o sfortunata) di turno. Un messaggio che sembrava essere più o meno questo: "Se la razza umana potesse andare d'accordo con questi esseri di un altro pianeta allora la pace, l'amore e la felicità si diffonderebbero in tutto il mondo civilizzato".
Nonostante il finale per alcuni versi assolutamente super pessimista della (mini)serie del cineasta danese, questo passaggio faceva intravedere uno spiraglio di speranza per l'umanità, alla faccia delle considerazioni denigratorie di Monkee Puppet.

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Copenhagen Cowboy: un'immagine suggestiva della serie

Un'idea che deve essere piaciuta a Refn, dopo tutto di Miu (Angela Bundalovic), la protagonista di Copenhagen Cowboy, la serie Netflix presentata a Venezia79 e disponibile sulla piattaforma del Tudum dal 5 gennaio, si sa per certo solo che da neonata è stata abbandonata nella neve e che è stata rapita dagli extraterrestri a soli 7 anni. È quindi plausibile ipotizzare che possa essere uno degli esseri di un altro pianeta simbolo della prova a cui la razza umana è chiamata per ottenere pace, amore e felicità.
Certo, non è andata benissimo fosse così. Un affascinante aggancio narrativo che ha permesso a Refn di collegare idealmente i due titoli, che possono essere visti come concettualmente affini, se non addirittura appartenenti al medesimo universo (adesso che gli universi ci piacciono tanto), anche per tante altre tematiche esplorate dal regista sin dal suo arrivo ad Hollywood e giunte forse solo ora ad un primo apice, proprio nel momento in cui da Hollywood si è staccato, tornando in patria per la prima volta dai tempi di Pusher 3. Sul suo allontanamento, soffermandosi in special modo sul destino deciso per TOTDY, si è espresso anche di recente proprio lui (potete leggere qua). Ma andiamo con ordine.

Un mondo condannato alla distruzione

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Too Old to Die Young: Miles Teller in una scena

Too Old To Die Young ci raccontava di un America vista come la più grande espressione del fallimento della società patriarcale. Nonostante la (mini)serie, come tutti i lavori del cineasta danese, sia una creatura complessa per forma e per contenuto, potremmo comunque provare a riassumerla come una ballata al neon estrema, violenta e totalmente asservita alla potenza dell'immagine filmica sulla morte della civiltà occidentale contemporanea.
Il regista, insieme al fumettista Ed Brubaker, racconta attraverso la lenta discesa all'inferno del detective Martin Jones (Miles Teller) di come l'uomo moderno abbia tentato di imbrigliare i suoi stimoli primordiali e di come abbia, conseguentemente, vessato la donna fino a relegarla ad un ruolo da emarginata, di contorno. Fallendo su tutta la linea in entrambi i casi.
Grazie proprio alla negazione estrema, infatti, questi istinti hanno paradossalmente acquisito uno status praticamente sacrale per l'umanità, la quale, data la sua natura, li ha poi corrotti, trasformandoli nelle loro forme estreme, violente e ancora più catartiche. Un modo efficace per imboccare la strada dell'autodistruzione.

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Copenhagen Cowboy: una scena della serie

Copenhagen Cowboy si riconnette a questo discorso, presentandoci un mondo quasi post apocalittico, disconnesso, slegato, oscuro, ostile, orrorifico e abitato solo da vittime e dai loro carnefici. Dei mostri abbandonati dall'amore, capaci ormai di stringere rapporti umani solo in nome della prevaricazione. Un'umanità deforme, condannata dalla presenza stessa della protagonista della storia, alieno in mezzo ai terrestri e portatrice di una potenziale speranza esterno che però nessuno merita.
Una donna, appunto, anzi una donna che proviene da un altro pianeta. Di più, una donna che non è una, ma è tante, un'estremizzazione della concezione del femminile di Refn che fa scopa con la natura complessa (giusto?) dei suoi lavori.

Il ruolo delle donne

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Copenhagen Cowboy: una scena della serie disponibile su Netflix

Le donne sono un altro punto di connessione fondamentale tra i due titoli. Miu "atterra" in questa Danimarca di confine ritratta da Copenhagen Cowboy, come un portafortuna, una gemma rara (perché vergine e innocente) alla mercé di una strega che ha perso i suoi poteri (o una donna che ha perso la sua maternità) per poi iniziare un percorso di trasformazione, anche fisica (pensate all'outfit della ragazza: quasi un altro corpo, una corazza), fino a divenire arbitro in Terra del bene e del male.
Refn parte con un racconto esoterico/folkloristico sul quale imbastisce una sorta di horror psichedelico, in cui però tutto si trasfigura nella sua dimensione fashion-stilosa fusa con un'idea di cinema mutevole dal punto di vista dei generi e in cui l'unica cosa non sfumata è il suo binomio fondamentale. Donna e uomo, guaritrici e maiali, blu e rosso. Non a caso la nemesi della blu Miu è la sorella (e quindi essere superiore) di rosso vestita del figlio speciale del pene e di conseguenza della società patriarcale.
Di rosso, come di rosso è vestita Yaritza (Cristina Rodlo), la Sacerdotessa della Morte di Too Old To Die Young, progenie nata dal collasso del mondo, temprata con una crudeltà senza fine e senza senso. La protagonista venuta dal deserto invece che dalla neve, che converte gli uomini meritevoli perché genuflessi al cospetto del femminile e uccide tutti gli altri; che libera le donne oppresse e schiaffeggia quelle che del maschile sono amanti.

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Too Old to Die Young: Un'immagine tratta dalla serie di Refn

Il suo contraltare in quel caso è Diana, la guaritrice (anche lei) che adopera gli uomini dipendenti da una violenza vista come arma di liberazione personale e di connessione con Dio. Essi, in suo nome, indirizzano il proprio operato omicida verso degli obiettivi facenti parte di quella corruzione che è poi la donna stessa, in ultimissima battuta, a denunciare apertamente allo spettatore. Un personaggio così fondante nel pensiero e nell'universo del cineasta danese da assumere quasi le fattezze di un monito, una coscienza collettiva.
La donna è giudice e bussola. È il solo futuro possibile, perché è l'unica consapevole del tramonto di un sistema obsoleto, oltre che il simbolo della rinascita e della continua nascita.

La supremazia dell'immagine cinematografica

Too Old To Die Young Episode 8 Recap
Too Old to Die Young: Un'immagine della serie di Refn

L'ormai tipico immaginario concettuale del cineasta danese, che diventa dimensione dell'anima figlia dell'immagine e, soprattutto, della fruizione audiovisiva, è il terreno fertile per le figure refniane, in posa, decadenti, terribili e bellissime, ed è anche l'ultima cosa in comune tra Too Old To Die Young e Copenhagen Cowboy.
La prima simboleggia il momento di massima fascinazione estetica dell'America per il regista danese, divisa in due grandi ambienti, opposti, ma ugualmente selvaggi. Entrambi abitati da una forma di corruzione spirituale, che consuma dall'interno le famiglie di sangue e di fatto, e da una solitudine figlia della disumanizzazione causata da un tessuto sociale viziato da eccessi comportamentali, prigioni architettoniche e deformazioni ideologiche.
In queste costruzioni va in scena la battaglia per il proseguio del mondo, in cui sogno e realtà si mescolano, attraverso esplosioni visive che nella serie Netflix prendono via via il sopravvento su tutto il resto, arrivando a imbastire una vera e propria coabitazione di vari piani esistenziali di rimando lynchano, in cui tutto si muove al rallentatore, in cui tutto si sgretola piano e piano e piano piano riprende forma, continuamente.

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Copenhagen Cowboy: Un'immagine promozionale di Nicolas Winding Refn

Fuoco di questi spazi ideali composti da metamorfosi costanti è la camera. Centro di gravità permanente, nucleo essenziale intorno al quale tutto accade. Refn ha in testa lei e solo lei come reale protagonista dei suoi due ultimi lavori. Come se, veramente, l'universo prendesse forma in riferimento al suo sguardo e non il contrario. Ancora, ciò che più cattura in questa impostazione attaccata all'immagine sta nel fatto che il regista sembra cercare proprio al suo interno una struttura narrativa fondamentale. Un'operazione sempre più rara, ma che trova una sua logica naturale nell'essenza stessa del cinema, che, scusate la ripetizione, è racconto per immagini.
Forse solo ora Refn ci è, qualche modo, finalmente, riuscito. Nella sua Danimarca, costruendo un nuova dimora immaginifica, lontana da quella che ha precedentemente distrutto.