Recensione Torso (2009)

Attraverso uno stile delicato e mai ovattato mette in scena una violazione familiare e sessuale, temi di certo non autentici per il cinema, ricorrendo però a metafore e metonimie contorte, materializzate ma soprattutto metabolizzate all'interno del plot, dotate di poeticità e di purezza innegabili e percepibili allo sguardo indagatore di chi vorrà riflettere ben oltre l'immagine schermica immediata.

Con-tatto

Quando si descrive un'affinità elettiva profonda, perfetta e sciolta da ogni geometria noi occidentali usiamo l'espressione "un corpo un'anima" per legare indissolubilmente l'unione totale dell'amore tra la materia e lo spirito. Gli orientali però, convinti metafisici, riescono a superare le barriere concettuali alla base della nostra semantica emozionale e a sviluppare una grammatica molto più dilatata e meno conformata alle simmetrie della conoscenza media. E' quello che di-mostra il sessantanovenne Yutaka Yamazaki, direttore della fotografia del bravo Hirokazu Koreeda, in Torso, la sua prima opera come regista.

Yamazaki racconta con assoluto tatto, degno del regista per il quale ha lavorato per anni, una storia avviluppata e recondita. Attraverso uno stile delicato e mai ovattato mette in scena una violazione familiare e sessuale, temi di certo non autentici per il cinema, ricorrendo però a metafore e metonimie contorte, materializzate ma soprattutto metabolizzate all'interno del plot, dotate di poeticità e di purezza innegabili e percepibili allo sguardo indagatore di chi vorrà riflettere ben oltre l'immagine schermica immediata. La profondità della storia di Hiroko, interpretata dalla bravissima Makiko Watanabe, risiede nel sistema segnico che il regista utilizza nella raffigurazione: la donna è un'isolazionista, prima ancora che una lupa solitaria, che vive da sola e ha pochi contatti con la sua famiglia, a eccezione della sorellastra Mina. Si divide tra il lavoro e la casa, dove l'unico a tenerle compagnia è un busto maschile gonfiabile. Oltre le apparenti perversioni erotiche cui la protagonista si abbandona nelle notti di solitudine e le ostinate barriere verso l'universo maschile architettate dalla paura, affiora lentamente una dimensione psicologica e familiare complessa e claustrofobica. Hiroko compie un training intimistico solo quando ospita Mina, che quasi s'è arresa alle violenze del fidanzato: comprende in quel momento che i riflessi di una violenza che ha conosciuto per prima, perpetuata dal padre, hanno condizionato e modellato nella riduzione la sua esistenza. Il torso, l'ancora a cui s'appiglia con tenacia, è l'unica presenza confortevole e sicura per lei, un prolungamento post-traumatico del proprio inconscio, desideroso di rivalsa.

Definito da una virginale e connaturata ossessione dell'immagine, Torso espande vorticosamente la spirale drammatica del suo viaggio introspettivo nel reciso microcosmo doloroso della protagonista nella suspense parossistica della sua estetica. Le sue inquadrature, che fissano senza orpelli i fantasmi personali e gli spettri familiari nel paesaggio dilatato di Tokio e nelle incrinature sessuali, descritte senza la spregiudicatezza morbosa di Shinya Tsukamoto in A Snake of June, sembrano dondolare quasi al ritmo dei continui sospiri che catturano gli spettatori nella commozione e negli afflati. A rendere ancora più evocativa quest'opera raffinata e impressionante la musica surreale del compositore Akira Matsumoto, che scavalca i vuoti scavati da un rovente pathos, che travalica le congetture superficiali partorite dagli schematismi di comodo.