Che cuore grande, dietro il documentario di Camilla Filippi. Un cuore gigantesco, e la sensazione che la sua storia, raccontata con estrema delicatezza, sia in qualche modo la storia di tutti colori che, per vivere, sono dovuti scappare, tagliando di netto parte di quelle radici che sprofondano nel terreno della memoria e dei ricordi. Da questo spunto, e girando attorno ad un protagonista inusuale, ecco Come quando eravamo piccoli. Poco meno di novanta minuti, presentati in anteprima ad Alice nella Città, in cui l'attrice dimostra un certo senso scenico narrando la storia di suo... zio. Anzi, di Zio Gigio, legame assoluto della Filippi rispetto al passato, e in un certo qual modo anche la traccia di un futuro prossimo ancora tutto da scrivere.
Tra l'altro, Come quando eravamo piccoli, ricalca una storia nella storia: Zio Gigio, nato a Brescia le 1957, è stato uno dei tanti bambini che hanno subito lesioni cerebrali da forcipe (tipiche di chi è nato in casa), rendendolo ipovedente. Dopo quarantadue anni da lavoratore di categoria protetta, anche per Gigio è finalmente arrivato il momento della pensione. Un'occasione, questa, colta dalla regista: intraprendere un viaggio alla (ri)scoperta dello zio, e in compagnia di suo fratello, Michele.
Come quando eravamo piccoli: intervista a Camilla Filippi
Uno "sguardo diverso, la cui fragilità si riflette in ogni parola e in ogni passo", dice Camilla Filippi, puntando ad un percorso vivido in cui lo sguardo si allarga verso la semplificazione diretta delle emozioni. Come? Strutturando sullo stesso piano tanto i silenzi, quanto le parole. "Sono scappata molto giovane dalla mia città", confida la regista, durante la nostra intervista, "Per anni ho evitato di raccontare che avessi una famiglia particolare. Tra l'altro avevo una zia, sorella di mio zio, nata spastica, per colpa dei medici. Ho sempre omesso questa parte perché non mi piaceva l'idea che le persone potessero provare un sentimento di pena nei miei confronti. Poi crescendo mi sono resa conto che di fatto, la mia famiglia rappresentava qualcosa... La famiglia è quel luogo con il quale ci relazioniamo costantemente. Lì nascono le nostre paure, lì nascono le nostre gioie, le nostre sicurezze". Anche per questo, Come quando eravamo piccoli si è accesso dopo un evento in particolare: "Tutto è successo quando è arrivata la notizia che mio zio sarebbe andato in pensione. Ho capito che avevo costruito il mio palazzo un po' storto e c'era bisogno di addrizzarlo. È arrivata in maniera forte la necessità di raccontare questa storia, che è una storia sì intima ma che in realtà riguarda molte persone che se ne sono andate e che devono fare i conti appunto con quel senso di colpa gigantesco".
Una memoria da preservare
Come quando eravamo piccoli è poi un discorso sulla memoria, rintracciata anche nella materialità delle cose: "Mentre cercavo materiali mi sono imbattuta in VHS e diapositive. Sono cose materiali, che ti fanno sentire quanto il tempo passi. Mia madre è mancata vent'anni fa e vi dico che rivedere una persona che parla dopo tanto tempo, quando non ti ricordi praticamente più la voce, perché la memoria poi è strana, è qualcosa di toccante, ma a suo modo divertente. Credo molto nella memoria, e anzi penso si debba tornare tutti a quando eravamo piccoli. Dobbiamo tornare lì e guardare con gli occhi da adulti quel mondo per cercare di capire meglio noi stessi e come relazionarci poi con le altre persone".
Se Zio Gigio è un protagonista perfetto (lo amerete), com'è stato per Camilla Filippi girare attorno a lui, senza intaccare la sua purezza? "Zio è un protagonista emotivo di fatto, perché a livello drammaturgico lui non è cambia, gli cambia la vita perché succedono le cose ma lui rimane uguale. Quello che cambiamo, forse, siamo io e mio fratello. Anzi, Zio era entusiasta, si sentiva importante. Ho scelto di girare con una macchina sola perché non volevo che la struttura cinema fosse impattante. Quello che ho cercato di fare è di porre le domande giuste in certi momenti, e sapevo che ponendo la domanda giusta e rimanendo in silenzio qualcosa sarebbe successo".
Cosa vuol dire essere regista
Se Come quando eravamo piccoli parla di famiglia, nel senso più naturale del termini, la Filippi ci racconta che è stata supportata dalla mamma a diventare, poi, un'attrice. "Ho frequentato una scuola pubblica e, di pomeriggio, facevamo teatro, educazione all'immagine e informatica. Mia madre mi ha detto che avrei potuto fare ciò che volevo. Ho iniziato, accompagnata da lei, a fare delle pubblicità per Benetton. Ho fatto 54 pubblicità in tre anni. Poi un giorno, su un set una signora che aveva una famiglia difficile perché aveva anche lei un marito poliomelitico e un figlio con una grave disabilità, mi disse che a Roma fanno i film. E sono corsa via. Per fortuna avevo mia madre con me, che mi ha spinto e supportato. Senza togliere nulla a mio padre, che per quindici anni mi ha detto di continuo quando sarei andata a lavorare davvero!".
In chiusura, un pensiero su questo cambio di prospettiva: "Essere regista significa raccontare una storia, raccontarla, tradirla, inventarla. E questa cosa mi ha colpito molto e mi è piaciuta, quindi sto scrivendo ora un film di finzione che comunque ruota sempre attorno a questo mondo dal quale io vorrei scappare, ma che ho deciso di abbracciare".