Amanti dell'agente segreto più affascinante, bello e irresistibile di sempre, perdonateci. Stiamo per violare una regola sacra. Ci permettiamo di sfatare una delle battute più celebri della storia del cinema. L'iconica frase "il mio nome è Bond, James Bond" non dice proprio tutto, è vera solo in parte, perché omette un elemento fondamentale: l'uomo che ne veste lo smoking. L'eroe raffinato, pura essenza dell'eleganza più mascolina che si possa concepire, sopravvive ai volti che lo hanno interpretato, eppure ne è sempre stato condizionato. Il James Bond di Sean Connery non è quello di Roger Moore, a sua volta diverso da quello di Timothy Dalton e Pierce Brosnan. I volti cambiano, l'ineffabile mito resta, alterato dalle diverse sfumature che i vari interpreti hanno voluto (e saputo) dargli. Dunque, quella frase emblematica, scultorea e inscalfibile, sarebbe più corretta se declinata al plurale: "Noi siamo Bond, James Bond".
Lo sono stati tutti: la classe virile di Connery, l'autoironia di Moore, la compostezza di Dalton e Brosnan, e persino la rigidità di George Lazenby. Per più di 50 anni il personaggio ideato dall'inquieto Ian Fleming, ossessionato dalla necessità di riversare in Bond tanti suoi desideri, si è imposto nel cinema quasi come genere a sé stante, capace di sdoganare il cinema inglese in tutto il mondo, rendendolo più accessibile e commerciale. Una serie inesauribile e costante (la pausa più lunga tra una pellicola e la successiva è stata di sei anni) che ha avuto il merito di fondere l'action movie con la spy story, senza mai tralasciare un sottofondo di frivola ironia. La formula dell'intrattenimento perfetto, per diversi anni punto di riferimento tecnico per gli effetti speciali roboanti, assomigliava a quella di un buon drink. Agitato, non mescolato, ovviamente. Così, nel corso del tempo cambiavano gli ingredienti, ma il sapore era quasi sempre lo stesso. C'erano complotti globali, cattivi molto caratterizzati, il mondo in perenne pericolo. E poi lui, l'agente con licenza di uccidere, il prefisso elegante che superava ogni difficoltà, ogni tortura, con una superiorità quasi altezzosa e un egocentrismo catalizzante, per le donne che cadevano ai suoi piedi e gli spettatori in sala. Ogni film di James Bond, per quanto pieno di costanti minacce, era ricoperto da una patina di piacevole evasione, dalla certezza del bene che avrebbe sconfitto il male. Il bello era solo capire come il buono avrebbe beffato il maligno. Fino a quando è cambiato il mondo e Bond assieme lui. Lo scossone tragico dell'11 settembre ha fatto interrogare gli autori e i produttori di Bond sull'adeguatezza di questa formula, ormai incompatibile con una realtà stravolta; le gesta rassicuranti di un uomo impermeabile al dolore erano ormai poco credibili e giocare con la vita in maniera quasi ludica era del tutto fuori luogo.
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I produttori Barbara Broccoli e Michael G. Wilson non hanno mai nascosto questo radicato senso di inadeguatezza che ha minato le loro storiche certezze; un disagio che si è poi tradotto in un'inevitabile tabula rasa. Bisognava ripartire dall'inizio. Da zero, prima che da 007, dall'uomo dietro il numero. Da questa nuova esigenza narrativa scaturisce la scelta impopolare di Daniel Craig, un volto insolito per un attore attraverso cui è stata scritta una nuova pagina del Bond cinematografico. Un'icona scossa dalle sue fondamenta, mescolata e agitata, che andiamo a riscoprire attraverso sette tappe di una profonda rivoluzione etica ed estetica. Alla scoperta di un personaggio resettato, stravolto e rilanciato verso nuove imprese. Perché, per chi si definisce "esperto di resurrezioni", la morte può attendere e il domani non muore mai.
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Craig, Daniel Craig
James Bond, oltre che una spia e molto prima che un agente, è un corpo, un volto. Pura presenza scenica ed essenza dell'esteriorità. Tra le pagine dei suoi romanzi Fleming non ne ha mai tratteggiato una descrizione scrupolosa, per questo è spettato al cinema dare forma alla sua iconografia. Per decenni 007 è stato alto, magro, bruno, agile e dotato di un savoir-faire inimitabile. Poi ecco arrivare lui: Daniel Craig, ovvero un attore che, ad una prima occhiata, sarebbe stato più adatto ad interpretare un nemico della celebre spia. Biondo (alcuni ironizzarono con un "James Blond"), rozzo, dotato di connotati più teutonici che britannici, con quel fisico massiccio e soprattutto quello sguardo gelido a dominare un volto segnato e spigoloso. Le prime reazioni furono di puro sconcerto, ma dopo le petizioni che ne chiedevano l'immediato boicottaggio, Craig ha zittito tutti con il silenziatore, colpendo molti spettatori al cuore e regalandoci un James Bond moderno, in grado di implodere e di accogliere sul suo corpo un'inedita complessità fatta di dolore e ironia rinnovata. Il suo James ha imparato la lezione da Jason Bourne: picchia forte e si fa male, corre e si affanna sino allo stremo delle forze, sanguina ma tiene sempre alle maniche ordinate delle sue camicie. Quella di Craig si è presto dimostrata una scelta coraggiosa e determinante per rappresentare un Bond finalmente più credibile e meno patinato del passato. Un uomo che si sporca le mani e si interroga sul senso del suo ruolo nel mondo, sprezzante del pericolo nonostante la consapevolezza di cosa sia la morte. Una nuova icona che dà un calcio alla sua stessa leggenda con una sola frase. Di fronte al celebre dilemma di un barman che gli chiede se desidera un drink mescolato o agitato, lui risponde: "cosa vuole che me ne freghi". Ben rinato, signor Bond.
Rispettare la formula
Nella saga bondiana i messaggi non si autodistruggono dopo cinque secondi. Il che significa che qualcosa sopravvive al passare del tempo e non tutto può essere rivoluzionato. Da sempre, e uno dei primi a notarlo fu Umberto Eco, i film dedicati a James Bond seguono uno schema fisso, dove le dinamiche narrative si ripetono di continuo. Con un piede orientato verso l'innovazione e l'altro ancorato alla tradizione, il Bond di Craig ha riproposto un suo ordine sintattico di eventi, come se l'intreccio di ogni film fosse solo un pretesto per mettere alla prova la personalità dell'eroe. Così, ecco che ognuna delle ultime quattro fatiche cinematografiche di 007 incomincia con un lungo inseguimento. Nei luoghi più esotici o classici del mondo, volando sui tetti con le moto o praticando possenti scazzottate tra delle travi sospese nel vuoto, il nuovo Bond apre sempre le danze con il fiatone. Altra marcata peculiarità è il rapporto conflittuale con M, pieno di battibecchi, frecciatine neanche troppo velate e un controverso atteggiamento di rispetto e disobbedienza da parte dell'agente nei confronti del suo superiore. Immancabili poi i flirt e le conquiste femminili (che approfondiremo più avanti) e il faccia al faccia con il nemico, quasi sempre in situazioni disperate, da ostaggio incatenato e immobile. E nonostante la scena dei trapani vista in 007 Spectre sia tremenda, crediamo che la sevizia sulla sedia di Casino Royale sia imbattibile in quanto a crudeltà. Soprattutto per il pubblico maschile...
Tutto di personale
Se al Bond di Brosnan il mondo non bastava, a quello di Craig non serve. Al di là di qualsiasi complotto internazionale e minaccia bellica o terroristica alle sorti del mondo, le azioni del suo 007 sono dettate soprattutto da questioni personali. Il bene del pianeta è secondario rispetto alle sue pulsioni più istintive e recondite, tra cui emerge un forte desiderio di vendetta. Da Casino Royale parte un'irrefrenabile valanga, un effetto domino partito dall'amore nei confronti di Vesper, dal suo tradimento e dalla sua morte. Questo avvenimento fondante per il lato più misogino e diffidente della sua personalità, fa finalmente luce sul cinismo e il distacco che Bond ha sempre avuto nei confronti delle donne. Ma "donne" non fa rima solo con "belle grazie", ma anche M. Severa, algida e prodiga di rimproveri, il bel personaggio interpretato dalla sempre sontuosa Judi Dench è un'altra molla fondamentale per le azioni di James, come dimostrato da Spectre, dove tutto parte da un suo consiglio postumo. Questa visione più intima e quasi egoistica del personaggio, si traduce in una metodologia d'azione meno ragionata e più irruenta, sintomo di un incedere alimentato dal cuore e non da una pianificazione da rispettare. Craig avanza sfondando muri e uccidendo preziosi testimoni, fa uso di una violenza molto più disperata di prima, applicando metodi poco ortodossi. Il celebre Q non se la prenda, ma questo Bond alle penne esplosive sembra preferire le nocche delle mani.
Serialità serrata
Il moderno Bond è attento, tanto da intuire non solo la natura del tessuto sociale in cui vive, ma anche le esigenze del pubblico. Non basta più a se stesso perché non vive più nell'eco del suo stesso mito. In questa ritrovata curiosità nei confronti di chi e cosa lo circonda, i creatori di 007 hanno preso atto dello strapotere della serialità, televisiva e cinematografica, dove lo stretto legame tra gli eventi messi in scena e i rapporti ricorrenti tra i personaggi catalizzano l'attenzione dello spettatore. Un modo di raccontare che ha influenzato anche il nuovo ciclo inaugurato da Casino Royale e chiuso da Spectre. Come scissi in due piccoli segmenti, i quattro episodi interpretati da Craig sono tutti collegati tra loro, ma è facile notare come Quantum of Solace inizi subito dopo Casino Royale e come Skyfall funga da trampolino per l'atto finale che ha di fatto concluso l'arco narrativo dedicato alla spia di Craig, svelando anche origini di personaggi storici della saga. Un fascino seriale confermato anche dai titoli di testa di Spectre, pieni di frammenti dei tre film precedenti, schegge e ricordi di eventi che assomigliano proprio alla sigla di una serie tv.
Si ama solo due volte
Collezionista di trofei tra le lenzuola, il vecchio Bond era un serial lover, amante usa e getta per piacevoli e fugaci passatempi con donne accecate dal suo fascino. La matematica ci suggerisce che lo 007 di Craig è quello meno avvezzo alla nobile arte da Casanova, con una media di conquiste per film nettamente inferiore ai suoi instancabili predecessori. Ma al di là dei numeri, quello che è cambiato davvero è la rappresentazione del gentil sesso. La donna oggetto, la famme fatale sedotta e abbandonata nell'arco di poche sequenze è stata sostituita con figure femminili di altro spessore. Se le italiane Caterina Murino e Monica Bellucci si sono fermate al solito, vecchio copione, Eva Green, Olga Kurylenko e Léa Seydoux sono andate oltre lo strereotipo sessista. In Quantum of Solace il personaggio di Camille trova il suo riscatto attraverso Bond, finalmente libera da un passato di sottomissione. Una donna capace anche di combattere e di aiutare l'eroe nella sua missione. In Spectre il rapporto con Madeleine va oltre il sesso, perché tra lei e Bond si instaura un rapporto di reciproco appiglio, complicità e riconoscenza. E per una volta sarà una donna a liberare l'agente dal fardello del dovere. Ma, a nostro parere, la Vesper di Eva Green resta la migliore "Bond Girl" di sempre, non solo per il fascino della splendida attrice, non perché lei è di fatto il primo, grande amore del nostro (la tenera scena sotto la doccia ci mostra un Bond raramente prodigo di affetto), ma soprattutto perché è una persona che gli tiene testa anche a parole. La scena del loro primo incontro sul treno, vista in Casino Royale, permette ai due di spogliarsi a parole, attraverso un duello dialettico e uno scambio di battute pieno di sarcasmo e attrazione reciproca.
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Il male non muore mai
Non esiste eroe senza nemico. Una regola aurea alla quale Bond non si è mai sottratto. Ce lo dice la sua storia, costellata di nemici di ogni tipo: terroristi, criminali, guerrafondai e folli con idee che lo sono altrettanto. Spesso sopra le righe e fortemente caratterizzati, i villain di James Bond sono ritornati con prepotenza anche nel nuovo corso. Con l'unica eccezione del più anonimo Dominic Greene (Mathieu Amalric) visto in Quantum of Solace (il film meno riuscito della saga recente), negli altri casi ci siamo sempre trovati di fronte ad un male efficace, ad una minaccia concreta che ha messo in ginocchio Bond, spingendolo verso un profondo dolore. Il Le Chiffre di Mads Mikkelsen potrebbe anche non proferire parola per impressionare. Una maschera di cera che piange sangue, un nemico algido con il quale Bond duella sul tavolo verde, a suon di scale reali e poker per poi arrivare alla già citata scena della tortura. Ma l'asso nella manica spetta ai cattivi immaginati da Sam Mendes. Raoul Silva e Blofeld provano particolare piacere nel minare le certezze di Bond, entrambi si divertono con giochi sadici, lo scherzano pur di insinuarsi sotto la sua spessa corazza. Al di là dei loro piani terroristici nel mondo, loro due provano gusto nel distruggere l'uomo con licenza di uccidere. Trapani, tiri al bersaglio crudeli e ricatti psicologici danno forma a due antagonisti memorabili che hanno vissuto a stretto contatto con 007 stesso. Un ex agente e un fratellastro. Due modi per dirci che il percorso umano di Bond poteva anche portarlo altrove, che la sua esperienza traumatica avrebbe potuto trasformarlo nel male che combatte.
The Dark Bond Rises
E se l'antica magione di Skyfall assomigliasse a Villa Wayne? E se un Aston Martin multiaccessoriata fosse una specie di Batmobile? No, non sono solo congetture fantasiose, ma un parallelismo reso credibile da una pubblica ammissione di Sam Mendes. Il regista di Skyfall e Spectre, capace di portare nella saga una precisa visione autoriale, ha dichiarato di essersi ispirato a Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan per la sua revisione iconica di Bond. E infatti i punti di contatto si sprecano. Così come fatto da Nolan per l'Uomo Pipistrello, analizzato nell'animo della persona che ne indossa la maschera, anche Mendes ha cercato di scovare l'essenza più intima dell'individuo sotto lo smoking ben stirato, scavando in un passato pieno di traumi. Mendes e Nolan non si sono accontentati di celebrare il mito dei due eroi, ma ne hanno voluto esplorare la mitologia, ovvero le fondamenta, la natura più autentica. Come il Bruce Wayne di Christian Bale, anche il Bond di Daniel Craig è caduto nell'abisso (nella scena d'apertura di Skyfall), ha conosciuto il dolore fisico e percepito dentro di sé l'inadeguatezza alla missione eroica. E se il faccia a faccia nella sala dell'interrogatorio tra Batman e Joker rimarrà nella storia del cinema, anche l'incontro tra 007 e Silva fonde alla perfezione la natura del bene e quella del male, e la storiella macabra sulla natura dei topi è lì a ricordarcelo. Il villain interpretato da Javier Bardem si fa catturare volontariamente, si fa ammirare da prigioniero per illudere il suo nemico e poi attaccarlo dall'interno (vi ricorda qualcuno?). Metodi non dissimili dal Joker anche per il Christoph Waltz visto in Spectre: giochi sadici, scritte sui muri e il ricatto esercitato sulla donna amata con tanto di esplosivo addosso. E se il finale de Il cavaliere oscuro - Il ritorno non è che un grande atto liberatorio dell'uomo che si svincola dall'icona, anche Spectre finisce con una scelta simile: la vita privata al posto dell'eroe pubblico, l'amore più forte del dovere. Infine, crediamo fermamente che a vegliare da lontano sui due paladini ci siano sempre stati un padre e una madre illegittimi. Silenziosi consiglieri di due orfani che da lontano, con discrezione e distacco, guidano e ogni tanto rimproverano. Alfred ed M sono figure quasi sovrapponibili, anche perché lo spessore umano di Michael Caine non può che riconoscersi in quello di Judi Dench.
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