Nell'oggettività storica, che resta fondamentale, senza dover essere mai revisionista in funzione di una negazione di giudizio (ampiamente appurato, socialmente nonché politicamente, ma non è questo il luogo), il film di Edoardo De Angelis potrebbe essere meno controverso di ciò che mette in scena, prendendosi la briga di raccontare una storia - o meglio un personaggio - estremamente interessante, appartenuto ad un'altra epoca e ad un'altra Italia. È meno controverso di ciò che sembra, perché dietro l'altisonante titolo, Comandante, scritto con un font che richiama ovviamente quello fascista, viene messo in scena il confine sfocato tra il giusto e lo sbagliato (dettato dalle gesta, e non dagli ordini militari), in un contesto storico in cui il male imperversava sul bene. Epoca di guerre mondiali, di ideologie, di popoli gli uni contro gli altri, in cui le leggi del potere incrinavano le leggi divine.
Avvolto da una coltre cupa, quasi horror, e volutamente claustrofobica, Comandante riporta in superficie nobiltà disobbedienti e lo spirito umano, nel bel mezzo di un conflitto terrificante. Ma ogni guerra è fatta dalle storie degli uomini, pedine di uno scacchiere in cui il potere schiacciava qualsiasi bagliore di luce. La stessa luce che De Angelis risucchia nelle profondità dell'Oceano, solcato da un "pesce d'acciaio" pieno di "uomini che vanno a morire". Uomini che De Angelis, alla sua terza regia (e questa è finita in Concorso a Venezia 80), tratteggia come se fossero un sunto dell'Italia, pregi e difetti compresi. C'è l'umanizzazione, quindi, ma c'è anche la presa di coscienza, da parte dell'autore (che ha scritto il film insieme a Sandro Veronesi), di narrare una storia inerente al contesto storico, ma in qualche modo avulsa per l'umore e le caratteristiche del suo ingombrante protagonista, sorretto da un fascino cinematografico che catalizza l'attenzione.
Comandante, Pierfrancesco Favino e una storia vera di compassione
Fascino, c'è da sottolineare, dovuto anche alla presenza di Pierfrancesco Favino, che indossa la maschera con l'accento veneto di Salvatore Todaro, comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina, schierato dal Re nel Mediterraneo (la Regia Marina era inizialmente sotto al Re, e non sotto Mussolini, che ne prese poi il controllo). Siamo nel 1940, e mentre risale l'Atlantico, passando lo Stretto di Gibilterra, per una missione di "agguato" - missione non troppo approfondita, bisogna dirlo -, si imbatte in un mercantile battente bandiera belga. Scontro a fuoco, missili che fischiano, l'oceano che ribolle. Esperto marinaio, uomo di mare, scaltro visionario: Todaro affonda la barca e, seguendo le leggi auree del mare, salva i ventisei superstiti, portandoli poi verso il porto sicuro più vicino.
Un frammento di storia dimenticata, la parentesi fugace di una Guerra Mondiale portata all'estremo, in cui il gesto umano di un fascista (perché di questo si trattava) diventa materiale per un film che sfrutta la messa in scena immersiva per addentrarsi nelle caratteristiche di un uomo ancora prima che di un militare: Todaro, infatti, era un mistico, un asceta capace di guardare oltre; era un devoto alle leggi del mare, rispondendo prima alla sua coscienza, e solo dopo agli ordini del potere. Perché, come scriveva nei diari alla sua Rina (nel film interpretata Silvia D'Amico, che il regista omaggia citando Il portiere di notte), "oggi è un giorno fausto. Oggi noi e i nostri nemici, insieme, ci siamo salvati".
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Il paradosso del giusto e dello sbagliato
L'intento di Edoardo De Angelis in Comandante, dunque, è un pretesto per parlare di umanità, rintracciata anche dove non dovrebbe esserci. Eppure, la bellezza di un gesto compassionevole (e di rottura), soppesando i libri di storia, dovrebbe sempre essere valutato per il gesto in sé, provando - per quanto possibile - a mettere da parte il giudizio. Ciò che viene fuori allora è la moralità di un personaggio, intransigente verso se stesso, in qualche modo avanguardista nella dialettica e nella struttura, e incongruente verso gli aberranti dogmi dell'asse Roma-Berlino. Un personaggio moderno, epico, che sembra uscito dalla fantasia più che dalla realtà a cui apparteneva, raccontato dalla sceneggiatura nel modo più coerente possibile. Dall'altra parte, c'è la solida e istantanea regia di De Angelis, che sfrutta l'ottimo sound design, l'opprimente scenografia d'acciaio, e si concede un doppio omaggio: quello già citato a Il portiere di notte di Liliana Cavani, e quello più sorprendente a Modigliani, sia per colori che per movimenti. Se il personaggio è chiaramente il traino, Comandante potrebbe però non approfondirlo il necessario nei suoi aspetti più arcani, nei suoi tormenti, nella sue occulte ossessioni.
Ecco, sì, non lo neghiamo: davvero avremmo voluto vedere di più. Avremmo voluto entrare attraverso i suoi silenzi e le sue pulsazioni per capirne il percorso e l'evoluzione, per apprezzare il coraggio di andare contro i dogmi di uno schieramento politico che lascia ben pochi dubbi, e che Edoardo De Angelis ingloba nel paradosso del film senza mai troppo illuminarli, concedendo poi spazio al resto dei marinai, tra inquietudini, sogni, amori infranti (grande cast di contorno, da Arturo Muselli a Giuseppe Brunetti) e un pizzico di retorica. Da questo punto di vista, la sceneggiatura, preferisce mantenersi in superficie (per restare in tema), per immergersi solo quando l'essenza di Todaro si tramuta nell'atto e nella visione in qualche modo divergente ad una cornice che potrebbe essere scambiata per un controverso pretesto (starà poi all'intelligenza del pubblico capirne le angolature). Tuttavia, se l'accennata superficialità incide marcatamente su una sceneggiatura episodica (sono due ore che volano, ma spinte da una serie di scene a sé stanti), ciò che resta alla fine di Comandante è l'analisi logica del paradigma biforcato: il giusto e lo sbagliato non hanno bandiere, non hanno colori, non hanno confini. Né ieri, né tantomeno oggi.
Conclusioni
Concludendo la recensione di Comandante, rimarchiamo la figura, estremamente cinematografica, di Salvatore Todaro, interpretato da un Pierfrancesco Favino che gioca di smorfie e sottrazioni. Personaggio interessante, e una lettura meno controversa di ciò che vorrebbe suggerire. Il film infatti mette in scena il coraggio di rompere le regole in funzione della compassione e dell'altruismo, senza l'ingombrante orpello del credo politico. Dall'altra parte, alcuni aspetti dello stesso Todaro non vengono approfonditi il necessario, interrompendo il flusso di una sceneggiatura non sempre all'altezza.
Perché ci piace
- L'atmosfera opprimente.
- Il personaggio, molto cinematografico.
- La sottrazione interpretativa di Favino.
Cosa non va
- Avremmo voluto capire di più su alcuni aspetti di Todaro.
- Una certa retorica.
- Alcuni temi non propriamente strutturati.