La siciliana ribelle è una co-produzione tra Italia e Francia. Lo stesso Marco Amenta, regista di estrazione palermitana, si è formato professionalmente in territorio francese, per poi tornare a occuparsi della tormentata vita sociale nella regione d'origine, attraverso reportage fotografici e documentari capaci di stimolare il grande interesse del pubblico nei confronti del fenomeno mafia. Era quasi scontato, quindi, che l'incontro col cast del film dedicato a Rita Atria, giovane donna che seppe dire no alle pressioni mafiose, avvenisse nella prestigiosa cornice dell'ambasciata francese a Roma, in quella saletta di Palazzo Farnese che ha già ospitato la presenza di importanti registi d'oltralpe come Laurent Cantet.
Mercoledì 25 febbraio, a distanza di alcuni mese dalla presentazione della pellicola al festival di Roma, si è svolta l'anteprima per i giornalisti, che si è conclusa con uno scroscio di applausi calorosi e convinti, rivolti in parte al non disprezzabile esito artistico e ancor di più al senso civico di cui La siciliana ribelle si fa carico. Di vari argomenti, legati tanto alla produzione del film che alla rappresentazione della mafia sul grande schermo, si è parlato nella successiva conferenza stampa, che ha coinvolto insieme al regista rappresentanti della produzione a attori, tra cui la protagonista Veronica D'Agostino, il francese Gérard Jugnot e Primo Reggiani.
Un po' come si è visto per la camorra nel film di Matteo Garrone, sembra che qui la mafia non venga più raccontata in modo romanzesco e patinato, ma con una forte attenzione allo squallore di certe realtà. Ne chiediamo conferma all'autore.
Marco Amenta: La mafia che racconto non ha nulla di romantico, è roba che deve suscitare disapprovazione e disgusto. La decostruzione della figura del padre di Rita che avviene nel film è in questo esemplare.
Del resto sono cresciuto in Sicilia fino a 18 anni circa, poi sono andato a vivere in Francia, ma in Sicilia ci sono ritornato in veste di fotoreporter, raccogliendo testimonianze dirette di come sono gli affiliati alla mafia, i funzionari dello stato che li combattono, le tante vittime di questo fenomeno. Per me nel film era importante la concretezza, mi sono ispirato a personaggi reali visti senza paraocchi di alcun genere. Anche a me, da ragazzo, è capitato di assistere a regolamenti di conti e sparatorie in strada, non in gran numero perchè non si deve nemmeno pensare che in ogni via di Palermo avvenissero con frequenza fatti di sangue, sarebbe una generalizzazione sbagliata. Però è pure vero che gli anni '80 nella mia città si sono lasciati dietro una lunga scia di delitti e morti ammazzati.
Tutto questo non è affatto romantico, siamo perlopiù vittime di questo sistema, creato dalla mafia, che si infiltra subdolamente nelle università, nelle istituzioni sanitarie, nella classe politica. In questo senso apprezzo molto il parallelo con Gomorra, perché condivido l'idea che gli esponenti della criminalità organizzata non vadano rappresentati come uomini belli, carismatici, affascinanti, in più Gomorra ha sdoganato il dialetto e i sottotitoli che rendono ancora più veritiera tale rappresentazione.
Similmente ho messo in scena un testo che non ha subito grandi modifiche, lasciando al contempo spazio per le inflessioni dialettali, le parolacce, il turpiloquio improvvisato dagli interpreti, ai quali non chiedevo certo un italiano finto e artificioso da telegiornale.
Questo non è un vero e proprio biopic, ma come hanno sentito gli attori la responsabilità di interpretare persone che si sono opposte alla mafia?
Veronica D'Agostino: Ho sentito molto la necessità di contribuire a rendere credibili situazioni che si legano, per esempio, alla figura di Paolo Borsellino. Interpretare il ruolo di Rita mi ha fatto inoltre riflettere su quanto sia difficile assumere un ruolo attivo in un paese come il nostro, che continua a respingere la gente comune ai margini della vita politica, impossibilitando ad agire chiunque auspichi un cambiamento.
Gérard Jugnot: In virtù della co-produzione sono arrivato in Sicilia ad interpretare questo ruolo, senza sapere poi molto dei siciliani e della loro mentalità. Però ho potuto vedere il documentario di Marco su Rita Atria che mi ha molto emozionato e responsabilizzato. Confesso che prima conoscevo di più la figura di Falcone rispetto a quella di Borsellino, perché in Francia la figura del primo è più nota. Perciò mi sono anche chiesto se fosse giusto che fossi io, e non un attore italiano, ad avere questa parte. Confrontandomi con Marco, il regista, ci siamo detti che comunque far interpretare Borsellino ad un attore non così popolare e riconoscibile presso il pubblico italiano, quale sono io, poteva essere una buona idea, tale almeno da evitare che un volto noto venisse a coprire l'immagine del giudice.
In più sono molto fiero che la vedova del magistrato abbia visto il film e lo abbia apprezzato, arrivando a commuoversi per la nostra ricostruzione.
Come siete riusciti a raffigurare così bene, all'interno del film, la mentalità della mafia?
Marco Amenta: Se persino nei giudici e nei poliziotti si riconoscono i tratti di quella mentalità, a livello di conoscenza degli uomini che avrebbero dovuto affrontare, è perché nella Palermo anni '80 molti dei magistrati e dei funzionari statali che contrastavano la mafia erano di estrazione palermitana e venivano anche dal popolo, in molti casi, per cui sapevano bene in quali modi si manifestano le azioni e il pensiero dei cosidetti uomini d'onore.
Anche qui mi è tornata utile l'esperienza di reporter e documentarista, gicchè ho avuto modo di incontrare ed intervistare personaggi come il commissario Accordino, uno dei pochi superstiti dell'attacco allo stato che ha portato alla mattanza degli anni'80; aver potuto parlare con lui e con altri, compresi i figli degli stessi malavitosi, mi ha aiutato molto a decifrare certi comportamenti.
Come ha scelto la protagonista, una bravissima interprete il cui ruolo sembra riecheggiare a tratti la figura di Antigone?
Marco Amenta: Veronica viene da Lampedusa, mi ha impressionato da subito quell'aria un po' selvaggia da ragazza non globalizzata, non addomesticata, come se ne incontrano tante, invece, negli ambienti di città. Non avendo quegli atteggiamenti "fighetti" si è poi rivelata una forza della natura, recependo immediatamente il senso di ciò che era chiamata a fare. Non le ho chiesto di improvvisare sul testo, ma sui movimenti, sul modo di porsi, aiutati entrambi in questo dalla professionalità di Luca Bigazzi che con la fotografia ci aiutato molto, non scegliendo la fissità ma accompagnando l'azione con movimenti di macchina giustamente nervosi.
Quanto alla figura di Antigone mi piace l'idea che Rita per rispetto dei suoi valori si sia ribellata a una forma particolarmente perversa di ragion di stato, ovvero quello stato mafioso che impone sugli altri le proprie consuetudini arcaiche e feroci.
Nel film ci sembra di intravedere una particolare dialettica tra sguardo e scrittura, con una prima parte costruita intorno a soggettive e altre inquadrature che rendono la visione semplificata della bambina, fino all'acquisizione di una cognizione diversa e sofferta della realtà attraverso la scrittura, attraverso le pagine del diario. Frutto di una scelta ben precisa?
Marco Amenta: In effetti vi è uno stacco notevole tra al prima e la seconda parte, anche a livello di grana fotografica, Le scene iniziali dell'infanzia sono girate in 35 mm perché lei crede di vivere ancora nel paese delle favole, cui si addicono quei colori vivaci e l'immagine di un mondo apparentemente ordinato.
Dopo si impone una grana maggiore, i colori diventano più freddi e si ricorre maggiormente alla macchina a mano, in corrispondenza di quel perdere progressivamente le certezze che si traduce in un mondo nuovo che non le piace, ma questa è anche una possibilità di emancipazione rispetto a quella realtà arcaica e maschilista che Rita a un certo punto rifiuta.
La figura della madre di Rita, che ripudia platealmente la figlia rimanendo fedele alla logica distorta degli uomini d'onore, esce molto malamente dal film. Così anche nella realtà?
Marco Amenta: Devo dire, anzi, che con quel piccolo gesto di affetto verso la foto di lei sul finale ho persino edulcorato un ritratto che nella realtà è persino più terribile. Ho avuto occasione di parlare con quella donna ma non di realizzare una vera e propria intervista, considerando lo stato di chiusura mentale in cui vive. Tra l'altro la scena in cui lei va col martello per sfasciare la lapide della foglia si ispira a un episodio realmente accaduto, ulteriore testimonianza di quel rapporto di amore/odio in cui ha prevalso l'insofferenza verso il coraggio di Rita, capace di compiere scelte difficili che lei si è sempre negata.