Il suo viso sembra scolpito nel granito, segnato da rughe che raccontano la storia di questo ragazzo del 1930, dagli occhi di ghiaccio e altezza notevole, salito per la prima volta su un palco durante gli anni della scuola per poi, decenni dopo, solcare quelli delle più importanti cerimonie internazionali, fino a ottenere l'Oscar per la miglior regia nel 1993, per Gli spietati, e nel 2005, grazie a Million Dollar Baby.
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Clint Eastwood, 87 anni e sempre un nuovo progetto all'orizzonte, è in Francia per la sua ultima fatica, The 15:17 to Paris, un film che ha al centro l'attacco a un treno, "una situazione interessante in questo strano periodo che stiamo vivendo" ha detto il regista al 70esimo Festival di Cannes, dove è arrivato per partecipare a una masterclass eccezionale, in cui ha raccontato tutta la sua vita cinematografica e non solo. Arrivato in jeans e giubbotto sportivo, con tanto di cappellino da baseball, Eastwood ha subito esordito dicendo: "Perché mi amano tanto i francesi? Perché sono pazzi! Mi piacciono i francesi, amo lavorare qui, spero di poterlo fare di nuovo" e ha poi ricordato di quando, nel 1994, è stato Presidente della Giuria, premiando Pulp Fiction di Quentin Tarantino: "Sono stato in giuria, quindi ho vissuto quel punto di vista: 6-10 persone nella stanza, devi riuscire a mettere d'accordo tutti ma è praticamente impossibile. Sono stato presidente insieme alla Deneuve, abbiamo dovuto vedere tutti i film, svegliarci presto la mattina. Ho votato per una cosa, altri per cose diverse. Semplicemente cerchi di divertirti, come per tutto nella vita: se ti prendi troppo sul serio fai una delle cose più pericolose della vita".
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A dirigere la masterclass è stato il critico americano Kenneth Turan, che gli ha subito chiesto di Gli spietati, presentato in versione restaurata proprio a questa edizione di Cannes: "Quando ho letto la sceneggiatura ho pensato che fosse incredibile: ho subito chiesto se lo script fosse disponibile. La storia mi ha colpito, parlava della durezza dell'animo umano. Dieci anni dopo l'ho ripresa in mano e l'ho amata ancora di più. Gene Hackman era in un periodo in cui non voleva fare nessun film violento, ma le circostanze hanno giocato a mio favore. Richard Harris invece era da qualche parte nelle Bahamas, quando gli telefonai pensò che fossi qualcuno che gli stava facendo uno scherzo, poi quando ha capito che lo volevo davvero nel film e mi sono offerto di mandargli la sceneggiatura mi ha detto che non ce n'era bisogno, lo avrebbe fatto comunque".
Gli inizi di una leggenda
Oggi è uno dei registi più amati e celebrati al mondo, ma all'inizio Clint Eastwood era un ragazzino dall'espressione corrucciata e silenzioso: "Sono cresciuto negli anni '30/'40, all'epoca ogni bambino avrebbe voluto partecipare a un film western. Mi piacevano tutti: belli quelli con John Wayne, Gary Cooper e James Stewart, ma anche i film di serie B non erano affatto male" ha detto ricordando gli anni dell'infanzia, proseguendo: "Sono nato con l'inizio della Depressione, ma non mi rendevo conto di quello che stava accadendo, i miei genitori facevano di tutto per non far mancare nulla a me e mia sorella. Ci spostavamo in continuazione, stavamo in una città al massimo per sei mesi, per poi cambiare. Credo che questo ti renda consapevole di quello che fai, di come impieghi le tue energie, oggi non devo preoccuparmi così, ma allora era difficile".
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Il primo impatto con la recitazione è arrivato a scuola: "Ho recitato la prima volta a scuola: per il ruolo da protagonista l'insegnante cercava qualcuno che sembrasse stupido e pensò che fossi perfetto. Il risultato fu così brutto da risultare quasi divertente. In quel momento pensai che non avrei mai più voluto fare una cosa del genere. Poi negli anni '50, ero al college, soprattutto per le ragazze, ho rivalutato la cosa, facevo improvvisazione. In seguito ho incontrato Irving Glassberg: era interessato allo sport e mi fece alcune domande, abbiamo fatto delle foto, e mi ingaggiò in un film per 75 dollari a settimana. All'epoca potevi comprarci diverse cose con quella cifra. Negli anni '50 ho fatto diverse particine, anche in televisione, poi nel '58-'59 ho fatto il provino per uno studio, sono stato preso e quello significava che il cinema era diventata la mia professione".
La svolta grazie a Sergio Leone
Dopo partecipazioni a vari film in ruoli secondari, finalmente il primo ruolo da protagonista: "Mi sono trovato un agente, è stato difficile, ma va bene così. Mi ha proposto di andare in Italia per girare un western, il remake di un film giapponese, intitolato Per un pugno di dollari (1964). Gli ho detto che non mi andava. Mi hanno chiesto di leggere la sceneggiatura e sono partito prevenuto, pensavo fosse una cosa di poco valore, e invece c'era molto di Kurosawa, non era affatto ciò che pensavo. Il budget era molto basso, ma non ero mai stato in Spagna o in Italia. Sergio Leone aveva una capacità incredibile nel trovare delle facce particolari, aveva un punto di vista inedito sulle cose. Quando abbiamo fatto il film, che doveva chiamarsi Il Magnifico straniero, non pensavo che sarebbe stato un successo. Ho pensato: lo faccio e poi me ne tiro fuori. È stato il primo film dove hanno scritto sul poster protagonista Clint Eastwood".
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Il passaggio da davanti alla macchina da presa a occhio del regista
Il successo degli spaghetti western girati in europa con Sergio Leone hanno aperto a Eastwood le porte di Hollywood, ma l'attore americano aveva progetti più ambiziosi in mente: "Ho fatto qualche film per la Universal, che sono andati bene, qualcuno in Inghilterra, poi, nel 1971, chiesi al mio agente se potevo dirigere un film che mi avevano proposto. Sono rimasti tutti a bocca aperta. Inizialmente non volevano pagarmi per il mio lavoro di regista, ma li ho convinti. La mentalità della Depressione ha prevalso".
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Nel mentre però ci sono stati anche ruoli discutibili, come quello di Filo da torcere (1978), in cui recita con una scimmia: "Commercialmente fu un successo, ma è stato distrutto dai critici. Gli orangutan sono animali carini, fare quel film è stato come tornare sul palco di scuola". Per i suoi primi passi sul set invece Eastwood ha tenuto bene a mente i consigli appresi durante la sua esperienza di attore: "All'epoca, nei primi anni '60, molti registi, che poi avrebbero fatto grandi cose al cinema, lavoravano in televisione, erano molto bravi: ho imparato molto da loro. Don Siegel, uno di questi, diceva la frase l'analisi porta alla paralisi: se il regista non sa dove vuole andare ne risente tutta la crew, Don invece era molto efficiente e sapeva esattamente cosa fare".
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Da Dirty Harry a I Ponti di Madison County: i segreti della filmografia di Eastwood
Da quel primo film dietro la macchina da presa Brivido nella notte, datato 1971, il ragazzo di San Francisco non si è più fermato: "Di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo pensavo che avesse buone possibilità, anzi ero sicuro che sarebbe andato molto bene o che avrebbe fallito. Che è come mi sento per ogni cosa che ho fatto" ha raccontato sorridendo Eastwood, continuando a snocciolare aneddoti sulla sua filmografia: "Quando ho deciso di fare I ponti di Madison County ho capito immediatamente che la storia doveva essere raccontata dal punto di vista del personaggio femminile, ho pensato che sarebbe stato meglio perché è lei che vive il dilemma interiore. Ho chiamato Meryl Streep, che mi aveva detto che non le era piaciuto il libro, le ho chiesto di leggere la sceneggiatura ed è entrata a bordo".
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Sui suoi film più recenti invece: "Ho diretto Mystic River (2003) perché è un libro che ho amato, abbiamo cominciato la produzione il giorno dopo che ho finito di leggerlo praticamente. Un libro davvero ben scritto di Dennis Lehane. Ho parlato a Sean Penn del progetto e quando l'ha letto ha detto: bingo! Quando dirigo un film amo scrivere e girare di pari passo, voglio vedere come va, osservare i meccanismi che si mettono in moto sul set". Sempre un libro è alla base anche del dittico Flags of Our Fathers (2006) - Lettere da Iwo Jima (2007): "Ho letto il libro di Letters from Iwo Jima mentre stavo girando Flags of our Fathers e parlava della fazione giapponese: mi sono appassionato alla storia dall'altro lato della barricata. Non abbiamo potuto girare lì, ma in Islanda. La sceneggiatura è di una giovane donna, Iris Yamashita, allora esordiente, che ha fatto un ottimo lavoro. Appena finito Flags of our Fathers, siccome la sceneggiatura era già pronta ed era buona, ho cominciato subito a girare l'altro".
Il metodo Eastwood
Ogni appassionato di cinema ha visto almeno una pellicola di Eastwood: è impossibile quindi non chiedersi come il regista crei la sua magia sul set: "Non faccio tante scene. Don Siegel mi ha insegnato a vedere cosa succede nelle facce degli attori alla prima ripresa. Molti registi amano provare molto, ma a me piace vedere lo sforzo nelle facce degli interpreti. Se funziona alla prima ripresa tutti sono sulla stessa lunghezza d'onda e si stabilisce l'umore del film. Ognuno ha il suo stile, nessuno ha ragione o torto, va bene tutto quello che funziona per te: William Wyler, ad esempio, ci metteva una vita per fare le sue cose. Molti colleghi hanno un assistente alla regia che va in giro per il set a urlare zitti! e poi vedi che gli unici a fare rumore sono loro. Stiamo facendo dei film, perché non farli come se fossimo nei servizi segreti? Uno dà le istruzioni all'altro in tranquillità e si lavora in silenzio. Ho avuto dei momenti in cui mi sono arrabbiato sul set, ma non perdo mai le staffe completamente. Tendo a lavorare con persone che conosco e con cui mi sono trovato bene: è la natura umana. Per me la cosa più importante è fidarsi dell'istinto: a volte è molto meglio dell'intelletto. Se funziona è meglio affidarsi a lui. A volte concettualizzare troppo le cose ti tiene all'interno di una scatola. Fare film è una forma d'arte emotiva, non è per nulla razionale: sono in ballo sempre le emozioni, quando scrivi la sceneggiatura, quando giri per la prima volta e vedi gli attori trasformarsi".
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A Eastwood manca mai la recitazione? "Ogni tanto mi manca recitare, ma l'ho fatto per tanto tempo, va bene così. Forse un giorno lo rifarò, ma non deve essere un'imposizione. Se il materiale è interessante girare un film non è mai difficile. L'ultimo film che ho diretto e in cui ho recitato è stato Gran Torino (2008): volevo raccontare una storia sul razzismo che fosse anche di intrattenimento. Quando hai una sceneggiatura del genere il lavoro non è un problema. Dico sempre: mi piace giocare a golf, ma non voglio dover giocare a golf".
La filosofia di Eastwood
Nonostante la sua corazza sembri quasi impenetrabile, proprio come quella di Joe in Per un pugno di dollari, Eastwood a Cannes ha rivelato qualcosa di se stesso e del suo approccio alla vita: "Un film che mi sarebbe piaciuto fare e che non ho fatto è Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder. Ai miei figli attori dico sempre di fare il meglio che possono: ogni volta gli dico di lavorare il più possibile, solo così si può migliorare. Ma non mi ascoltano! Non credo di avere rimpianti. Se continui a provare prima o poi ci sarà qualcosa di buono che arriva. La vita è un viaggio, per quanto riguarda il mio: penso che forse non dovrei pensarci, ma semplicemente godermelo. E giocare a golf. Sono stato fortunato. Devi metterti in gioco e non avere paura che le cose vadano male".