Life is strange cantava Marc Bolan. Quando pensi di aver raggiunto o ottenuto quello per cui tanto hai lottato capita che poi te lo vedi scivolare via tra le mani, allontanarsi in un'istante. E Claudio Caligari, dopo aver tanto combattuto per realizzare Non essere cattivo, il suo ultimo film presentato fuori concorso a Venezia72, si è visto portare il conto da quella stessa vita che gli ha permesso di terminare riprese e montaggio ma che gli ha negato la gioia e la rivincita di vederlo uscire in sala. Nato ad Arona, in Piemonte, nell'immediato dopoguerra, Caligari ha saputo immortalare la romanità degli anni '80 e '90, fatta di droga, violenza e malavita ma anche di un'umanità fragile e dolorosa, come pochi altri cineasti. Su tutti il suo amato Pier Paolo Pasolini, stella polare della sua intensa, seppur breve, filmografia. Un uomo mosso da una cultura curiosa e profonda che disertava il compromesso ed i riflettori, concentrato, preparato, combattivo.
All'indomani della sua morte in tanti, tra i titoli di quotidiani o siti internet, l'hanno descritto come un outsider, un underdog per dirla alla John Grant. Uno che faceva cinema poco popolare. Eppure Claudio Caligari, se si guarda più da vicino la sua carriera, più che outsider è stato un combattente. Uno che per tutta la vita ha creduto nei suoi progetti, anche quelli, tanti, che in sala non ci sono mai arrivati. Regista dallo stile singolare e dallo sguardo anticipatore, Caligari ha influenzato tanti cineasti venuti dopo di lui che gli sono debitori per aver mostrato un modo diverso di raccontare, di filmare. Un regista, senza retorica, impossibile da etichettare. Malinconico, ironico, ostinato, agguerrito. Come il suo cinema.
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Non essere cattivo
Un ammonimento ma anche consiglio affettuoso. Non essere cattivo. Così Claudio Caligari ha deciso di chiamare il suo ultimo film. Quel progetto tanto agognato eppure tanto difficile da realizzare, umanamente, con il male che si faceva sempre più spazio, e produttivamente, a causa dei soldi che non si trovavano, tanto da interpellare oltreoceano lo stesso Martin Scorsese con una lettera/provocazione. "Girato con l'amore e la cattiveria che la malattia gli imponeva" come ha scritto Valerio Mastandrea all'indomani della sua morte, il film è l'ultimo atto di quella che si può tranquillamente definire una trilogia, iniziata nella piazzetta di Ostia di Amore tossico e conclusa sempre sul litorale romano, tra droga e malavita. Ambientato nel 1995, quando l'Italia stava per cambiare profilo politico, Non essere cattivo, è incredibilmente attuale, tra scandali, commissariamenti e arresti illustri, proprio in quel fazzoletto di piazze e stabilimenti che fanno da sfondo alla storia dei due protagonisti, Vittorio (Alessandro Borghi) e Cesare (Luca Marinelli). Due fratelli di vita, legati da un'amicizia suggellata dallo stesso sentire, dalla stessa voglia di fagocitare quello che gli sta attorno. Se in Amore Tossico era l'eroina, in Non essere cattivo sono cocaina e droghe sintetiche a trasportare in un altrove momentaneamente meno squallido i due.
Co-sceneggiato da Caligari con Francesca Serafini e Giordano Meacci e prodotto dallo stesso Mastandrea, il film, già dal trailer distribuito dalla Good Films ha il sapore di qualcosa di potentissimo eppure fragile, proprio come lo sguardo dritto in macchina di un Marinelli ancora una volta incredibile nella trasformazione fisica che l'ha portato a calarsi nel panni di Cesare. In una delle pochissime sequenze rilasciate finora, prima della proiezione veneziana e del suo debutto in sala, Caligari cita ancora il proprio cinema. Questa volta è la celebre scena che apre Amore Tossico, con quella necessità "di svoltare" sfumata per colpa di un cono gelato da duemila lire ad essere ripresa dal regista. E chi guarda non può non sorridere con gli occhi che si fanno più lucidi pensando all'autoironia malinconica di quella sequenza. Claudio Caligari torna a Venezia, ancora una volta. Per l'ultima volta.
Amore tossico
Presentato proprio a Venezia, nel 1983, dove vinse il Premio Speciale - Sezione De Sica, da un Marco Ferreri estasiato e colpito dalla potenza visiva ed espressiva del film, Amore tossico è diventato il film simbolo di Caligari, un cult del cinema underground nostrano che tanti scandalizzò per quel taglio crudo e così autentico sul mondo della tossicodipendenza. Scritto insieme al sociologo Guido Blumir, il film prosegue il lavoro di ricerca, ossessivo, di Caligari, sul mondo della droga iniziato anni prima con il documentario Droga da fare, datato 1976. Con un andamento quasi episodico, vista la natura documentaristica del film, il regista ci trascina in un mondo fatto della continua ricerca dei soldi per "lo schizzo", la dose di eroina con la quale dare un senso a quell'esistenza sospesa tra un ago in vena e l'altro, costantemente sbattuti tra un muretto di Ostia e la periferia di Centocelle. Molto prima del Mark Renton di Trainspotting, iconica pellicola sul mondo della droga e sulla dipendenza, diretta da Danny Boyle nel 1996, che portava sul grande schermo le pagine scritte da Irvine Welsh una manciata di anni prima, c'erano Cesare, Enzo, Massimo, Ciopper, Michela, Loredana, Teresa, Capellone e Debora. Tutti ragazzi presi dalla strada, tra chi si stava o si era lasciato alle spalle la dipendenza da eroina. Tutti figli di una Mamma Roma fatta di borgate, furti, violenze e aghi, moderni accattoni pasoliniani persi tra le righe di una vita fatta di espedienti. Caligari li filma con fare documentaristico, mostrandoceli alle prese con la galera, la voglia di riscattarsi, il bisogno di farsi. Leggendaria la fatica produttiva che ha accompagnato la realizzazione del film.
Tra arresti dei protagonisti, l'urgenza di trovare sosia pronti a sostituirli per concludere le riprese, crisi di astinenza sopraggiunte sul set e un budget molto modesto, Amore tossico è un rigurgito neorealista, il figlio acido di una tradizione cinematografica capace di fotografare con disarmante autenticità i suoi protagonisti e la società nella quale erano immersi. Nonostante le imperfezioni del film, Amore tossico, ha il merito di aver preso a schiaffi quel rigetto di perbenismo che scandalizzava e imbarazzava una fetta d'Italia che non voleva guardarsi per quello che era. Claudio Caligari gliel'ha sbattuto in faccia ed il risultato l'ha pagato caro, vedendo abortire tutti quei figli, progetti di altre pellicole, hai quali ha dato vita solo nella sua mente. Unendo il dramma, basso, violento, crudo della tossicodipendenza dei ragazzi di vita dalle sfumature pasolinianie con parentesi di ironia grottesca ("Ma come? Dovevamo svortà e te te piji er gelato?) che si univano all'utilizzo di un linguaggio, tra il dialetto romano (scudi, svorta, scarso) e il gergo dei tossici (schizzo, spada, sberbatura), Claudio Caligari ha riscritto il modo di fare cinema in Italia, tra citazioni cinematografiche raffinate e l'urgenza di raccontare.
L'odore della notte
A quindici anni dal suo debutto al lungometraggio, Caligari, torna in sala con una storia, anche questa volta, presa dalla strada. Presentato a Venezia55, L'odore della notte, prende le mosse da un libro, Le Notti di Arancia meccanica, scritto dal giornalista Dino Sacchettoni. L'autore raccoglie le testimonianze del capo di quella che sul finire degli anni '70 venne ribattezzata dalla cronaca "la banda delle case", un gruppetto di criminali violenti che terrorizzò la Roma bene a suon di botte, furti e minacce. Se Amore Tossico aveva un taglio documentaristico, qui, ci troviamo difronte ad un'altro stile, più cinematografico in senso stretto, con echi da Nuovelle Vague dati dal racconto in prima persona, con voce fuori campo, del protagonista, Remo Guerra (Valerio Mastandrea) ed evidenti omaggi al cinema italiano di genere e al Taxi Driver dell'amato Martin Scorsese.
Il protagonista, poliziotto di giorno e criminale di notte, serve a Caligari per raccontare ancora una volta il nostro Paese, tra riferimenti alla politica e alla lotta di classe e una carrellata sul mondo della malavita romana, spinta da una fame cieca e rabbiosa. Mastandrea è perfetto nell'interpretare Remo, freddo e inespressivo eppure aggressivo e spietato. Se per Ciopper e gli altri era la droga la dipendenza che li aveva inchiodati ad una vita misera, Caligari ci mostra un'altra forma di assuefazione, quella dall'adrenalina per il colpo, per il potere e il terrore esercitato sulla vittima di turno. Dalle sfumature noir, L'odore della notte, è una lotta personale del protagonista contro la società, contro i privilegiati, che porta già nel suo nome, Remo Guerra, la sua radice ed il tragico epilogo. Citazionista, Caligari, non si accontenta di omaggiare l'ex marine insonne Travis Bickle in ben due scene - quando Remo si allena allo specchio a mirare con la pistola e quando getta a terra la televisione spingendola con il piede - ma arriva a citare il suo di cinema. La scena, sul finale, quando è evidente come ormai qualcosa si sia rotto nel meccanismo un tempo collaudato della banda, in cui Maurizio (Marco Giallini) e Il Rozzo (Emanuel Bevilacqua) danno di stomaco per aver fumato troppa erba dopo un colpo andato male, è ripresa da Amore tossico con Cipper ed Enzo al posto dei due criminali.
Se l'esordio cinematografico di Caligari era costellato da scene cult, L'odore della notte, non è da meno e tra finezze (Remo che punta la pistola al televisore mentre Heather Parisi si esibisce sui canali di Mamma Rai) e sequenze con dialoghi degni di un film di Dino Risi o Vittorio De Sica (quando il protagonista dichiara i suoi sentimenti a Rita) il regista inserisce una scena con Little Tony, vittima di una rapina, mentre canta uno dei suoi maggiori successi, Cuore matto, con la voce che si rompe davanti alla pistola di Maurizio puntata verso di lui. Un film stratificato e moderno nel modo di raccontare che ritroveremo, in piccole schegge, in Velocità massima di Daniele Vicari, non a casa interpretato proprio da Mastandrea.
Un cinema fecondo
Le brevi incursioni di Caligari sul grande schermo hanno lasciato il segno nella cinematografica nostrana, aprendo ad un filone narrativo che, negli ultimi dieci anni, è esploso con fortunate incursioni anche nel piccolo schermo. Se il cinema di Caligari è fatto di molteplici richiami cinematografici, i suoi soli due film hanno lasciato traccia nei lavori di altri registi, tra omaggi, atmosfere o vere e proprie citazioni. Quella descrizione delle borgate, tra piccoli criminali, tossici e furti, arriva molto prima dei film e dei prodotti televisivi che hanno riscosso successo e notorietà in un pubblico trasversale. Il primo esempio risiede in Romanzo criminale di Michele Placido. Il film, tratto dal romanzo di Giancarlo de Cataldo, che Caligari provò ardentemente ad opzionare senza successo, si concentra a raccontare le storie private dei protagonisti della Banda della Magliana, il Libanese(Pierfrancesco Favino), il Dandy (Claudio Santamaria), il Freddo (Kim Rossi Stuart), incrociando quelle di in una Roma fatta di intricati legami tra la malavita organizzata, i servizi segreti e il potere ecclesiastico. Ma il primo romanzo criminale a ben guardare è stato è stato proprio L'odore della notte con il protagonista che racconta la sua storia in prima persona, ricco di suggestioni filmiche ma anche così ancorato al reale, è il seme che ha fecondato il cinema nostrano di genere. Il Nero, Il Bufalo, Scrocchiazeppi e gli altri, personaggi ispirati a persone reali, trovano forse però in Remo, Maurizio, il Rozzo e Roberto (Giorgio Tirabassi), i propri predecessori cinematografici. E il successo ottenuto dal film di Placido ha dato a sua volta il via ad una rivoluzione narrativa che ha portato Sky a produrre Romanzo criminale - La serie, diretta da Stefano Sollima, con protagonisti una nuova leva di attori, Francesco Montanari, Vinicio Marchioni e Alessandro Roja. Da lì in poi sia il cinema che il piccolo schermo non hanno più smesso di raccontare, con uno stile schietto e autentico, debitore anche dello sguardo precursore di Calgari, la malavita, la droga e la violenza. Basti pensare a Gomorra di Matteo Garrone prima e alla serie sempre di Sollima poi (trasposizioni del libro/denuncia di Roberto Saviano), alla pellicola di Francesco Munzi, Anime nere, in concorso proprio a Venezia71 e vincitrice del David di Donatello come miglior film o a Suburra, ultimo lavoro di Stefano Sollima che sembra aver trovato in questo tipo di narrazione la sua dimensione ideale, dove racconta la Mafia Capitale dei titoli dei giornali, il romanzo criminale degli anni 2000.