Gli Stati Uniti sono un Paese con il morale a terra. Ce lo dicono i dati, drammatici soprattutto per quanto riguarda l'aumento del tasso dei suicidi in questi ultimi due decenni. Gli analisti di tutto il mondo hanno lavorato su ipotesi differenti e spesso si sono scontrati, ma più o meno tutti concordano su un punto specifico: si tratta di una depressione dovuta alla consapevolezza che "il mondo non vuole più essere nordamericano". Una prospettiva che ha cominciato a maturare alla fine della Seconda Guerra del Golfo andando a scardinare le sicurezze di un popolo messianico, che ha creduto di rappresentare il punto di riferimento per tutti gli altri soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell'URSS.
La realtà dei fatti, anche alla luce di quello che sta succedendo questi anni, ci dice invece che le cose non sono andate esattamente come gli americani pensavano e ciò ha originato una crisi riguardante le loro certezze. Come spesso accade (per fortuna) alcuni registi hanno colto questo sentimento crescente dovuto a questa sorta di tradimento storico percepito, cercando di raccontarlo attraverso la propria lente. A questa lista si è aggiunto di recente Alex Garland con il suo Civil War (qui la nostra recensione).
Il concepimento del film nasce da un'idea piuttosto semplice e tra l'altro già accarezzata da altri (basti pensare a La seconda guerra civile americana di Joe Dante del 1997), ma è la tanto disturbante quanto calzante connessione con il contemporaneo, il volersi concentrare sull'uso nichilista e crudele del racconto per immagini e, soprattutto, il modo con cui la generazione ora depressa guarda a quella che sta nascendo, a renderla più potente che in precedenza. Un aspetto, questo, portato in scena splendidamente dal rapporto tra le due protagoniste e da un finale contraddittorio e comunque incredibilmente rappresentativo di un avvicendamento che ci racconta come bisogna essere dei mostri per poter sopravvivere nel mostruoso mondo del futuro. Che forse è lo stesso del presente e del passato.
Cronaca di un Paese già diviso
Un indizio rilevante ci arriva dal fatto che Alex Garland scrive Civil War durante la pandemia, quindi a ridosso, se non prima, dell'Assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Questo significa che il regista non ha preso spunto da un evento precedente in particolare e per questo può esser ancora più legittimamente considerato un portavoce di un sentimento che già da parecchio tempo si respira negli Stati Uniti. Ecco perché la trovata di prendere un contesto piuttosto tradizionale di una guerra e portarlo in America risulta non solo interessante, ma anche credibile.
Non c'è bisogno di nessuna spiegazione sulle origini del conflitto, basta una scena di neanche 15 minuti con un certo personaggio, e non c'è bisogno neanche di spiegare perché sono stati scelti Texas e Carolina come Stati secessionisti. Come se le premesse per una guerra civile in realtà siano comprensibili al pubblico senza bisogno di inventare. Tutti segnali incontrovertibili di una scissione profonda di un Paese che ha visto, tra l'altro, il ritorno di manifestazioni contro la guerra in occasione di quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza ad opera di Israele. Un moto di proteste che non vedevamo dai tempi del conflitto in Vietnam.
L'unico vezzo (comunque non trascurabile) che serve a Garland per arrivare a dama è quello di non fare un film di guerra nel senso più puro, ma fare un film sulla rappresentazione della guerra e così creare quel cortocircuito cinematografico essenziale con cui proporre ad un popolo un conflitto in casa loro come quelli che ha visto solo in televisione e nel modo in cui lo ha visto solo in televisione. In questo contesto semantico viene piazzato un apparato da road movie che assume le fattezze di un metaforico viaggio di maturazione in cui ambientare passaggio di testimone da una generazione all'altra, forgiato nella crudeltà di una guerra rappresentante un momento storico drammatico.
La (rappresentazione della) Storia che si ripete
La Lee Smith di Kirsten Dunst è una fotografa di guerra che da 30 anni racconta i conflitti cercando di adoperare il proprio sguardo per registrarli, racchiuderli e poi consegnarli ai posteri con la speranza - ce lo dice proprio lei - di evitare che essi si ripetano in futuro. Una speranza che scoprirà nel corso del tempo essere mal riposta. Tale consapevolezza, nel momento in cui la incontriamo in Civil War, l'ha logorata al punto da sabotare il suo sguardo, costretto a rivedere le stesse immagini che fino a quel punto aveva domato per un fine più alto e che ora invece non la lasciano più andare.
Lei è l'America depressa. Quella che vive dei suoi errori e della crisi causata dallo svelamento delle sue illusioni, la stessa che non vuole che qualcun altro segua la sue orme. Qualcun altro tipo la Jessie di Cailee Spaeny, rappresentante di una generazione Z che in mezzo alle bombe in suolo statunitense ancora ride, scherza, impara e va in bicicletta. La generazione con uno sguardo già forgiato dalla guerra e quindi pronta a raccontarla in ogni suo aspetto, pronta a dominarla di nuovo e in modo ancora più cinico, crudele e nichilista rispetto a coloro che li hanno preceduti. O almeno nello stesso modo.
Tappa dopo tappa il rapporto di potere tra le due protagoniste di Civil War cambia, così come cambia quello tra le due Americhe che rappresentano, in una sorta di staffetta drammatica in un contesto in cui c'è il sole, i fiori sono bellissimi, i paesaggi sono straordinari, ma tutti quanti muoiono. Lee non vuole vedere più, non vuole più adoperare il suo sguardo, al contrario di quello di Jessie, affamato come non mai. Il momento del cambiamento arriva quando la donna decide di cancellare la foto di un cadavere, in quel momento non è più disposta ad elevarsi al di sopra di se stessa e raccontare la morte, venendo meno al giuramento sacro di chi rappresenta la guerra. Un giuramento che invece la ragazza raccoglie al punto da essere colei che è destinata a raccontare per prima la morte della generazione americana depressa, utilizzando la sua stessa tecnica (e tecnologia). Allora: il futuro sarà uguale se non peggio del passato?