Cinque tappe nella vita di una coppia, cinque percorsi nella memoria. Il film di Bruno Bigoni, Cinque stanze, esplora i limiti dell'amore attraverso una messinscena rigorosa, che nulla concede in termini di spettacolarità. L'intenzione del regista è quello di concentrarsi sulla crisi di una coppia vista, principalmente, dal punto di vista maschile, come suggerisce la sequenza iniziale in cui vediamo il protagonista che, seduto su una panchina in un parco, legge una lettera della moglie. Da qui il turbine della memoria si mette in moto e assistiamo a una serie di momenti di vita coniugale accostati con grande libertà.
A interpretare il marito, un giornalista prossimo alla pensione, è Riccardo Magherini, mentre la moglie Lara viene mostrata in vari momenti della sua vita, con età e fattezze diverse, incarnata da Debora Zuin e Gaia Carmignani. Scelta, questa, che in un primo tempo spiazza lo spettatore richiedendo un surplus di attenzione prima di comprendere la struttura temporale non lineare. Cinque stanze è un film tanto nitido e geometrico formalmente - con l'uso dell'elegante bianco e nero di Italo Petriccione ad amplificare il tutto - quanto complesso nel tentativo di mettere a nudo i sentimenti dei personaggi, riproponendo la soggettività della memoria nel suo fluire.
Il peso dei ricordi
Il sentimento che lega due persone non è lineare, ma nel corso degli anni avanza per ondate e, proprio come la marea, a momenti si ritrae. Così le svolte e i traumi dell'esistenza mettono a repentaglio il rapporto tra Lara e il marito, come ci mostra Bigoni in una serie di quadri familiari dominati da incomprensione, bugie e incomunicabilità, alternati al ricordo bruciante dell'amore passato. I continui salti temporali, che traducono in immagini il flusso di ricordi del marito e a tratti anche della moglie scandiscono una narrazione asciutta e naturale, in linea con le interpretazioni degli attori tra cui citiamo anche l'intensa Federica Fracassi.
Umano, troppo umano
In Cinque stanze, Bruno Bigoni trasforma i limiti produttivi in punti di forza. Lo stile elegante e raffinato fa da controcanto al dramma che viene ricostruito stanza dopo stanza. Il regista descrive attimi di esistenza, quotidianità presenti e passate che permangono nel ricordo spingendo i protagonisti a fare il bilancio delle proprie esistenze e a riflettere sugli errori passati. Si concentra sull'umanità dei personaggi, ma non giudica. Non esistono buoni o cattivi, colpevoli e innocenti, ma solo persone che seguono i propri impulsi e si lasciano trascinare dalle proprie debolezze.
I drammi sono collocati nel passato, il loro ricordo è ancora bruciante, ma la vita continua, nella quotidianità si cade e ci si rialza. Ed è proprio nella quotidianità che il cinema di Bruno Bigoni spiega le ali, raccontando piccoli attimi di vita vissuta in un minimalismo dal sapore poetico.
Conclusioni
La recensione di Cinque stanze di Bruno Bigoni evidenzia la capacità del regista milanese di raccontare una quotidianità con stile visivo sobrio ed elegante per amplificare il dramma dei personaggi, una coppia di sposi, che si allontana progressivamente dopo una tragedia familiare. Un film minimo e antispettacolare che mostra il complesso funzionamento della memoria attraverso un racconto frammentario e non lineare per sviscerare l'esaurirsi di un rapporto di coppia.
Perché ci piace
- Il realismo e la delicatezza nella rappresentazione del quotidiano.
- Le interpretazioni del cast, naturali e convincenti.
- L'eleganza visiva valorizzata dalla purezza del bianco e nero.
Cosa non va
- La frammentazione della temporalità risulta difficile da comprendere e il film richiede parecchi minuti prima di diventare comprensibile.
- Il senso di oppressione e malinconia avvolge anche lo spettatore, pochi i momenti in cui scorgiamo un barlume di speranza.