"Il cinema è una forma d'arte industriale". Così Emanuela Martini ha cominciato la presentazione del direttore della fotografia Christopher Doyle. Perché la sua forma d'arte è annoverata tra quelle sezioni "tecniche" dei premi internazionali. Un film è di un regista nell'accezione europea, dei produttori in quella hollywoodiana. Eppure chi ama il cinema sa quanta arte ci sia dietro la scelta della luce.
Doyle è il vincitore del Gran Premio Torino 2016, e ritirandolo ha accettato di raccontare la sua vita. "È troppo tardi per pentirsi, non si torna indietro", ha esordito all'incontro con la stampa. "Nella vita ho fatto cose normali, che fanno tutti. Come vendere medicinali falsi in Thailandia". Non si sa mai quando scherza e quando fa sul serio questo eccentrico sessantaquattrenne con le giacche originali e la battuta sempre pronta.
Al Torino Film Festival viene presentato un documentario su di lui, breve ed elegante, Wind. Poco più di mezz'ora di sue riflessioni e racconti in libertà, in doppia lingua (inglese e cinese) durante il quale lui viene inquadrato in un magnifico bianco e nero. E la fotografia se la è curata da solo. A seguire l'ultimo film di Philip Yung, Port of Call. Yung che "è morto troppo presto, ma era uno stronzo", come dice Doyle. "A volte bisognava mandarlo affanculo. Era come il Mao del cinema, bisognava dare un bello scossone a tutti questi millenni di storia. Abbiamo cercato di costruire qualcosa di nuovo e di ricostruire qualcosa che è andato distrutto. Ma anche la rivoluzione culturale voleva la stessa cosa. Che siamo riusciti a concludere alla fine? Oggi in Cina non si vede altro che commedie romantiche".
Una vita per diventare Du Kufeng
I suoi fan lo sanno: Chris Doyle è anche Du Kufeng (o traslitterato dal cinese con altre vocali, il significato non cambia). Ma Du Kufeng è Chis Doyle? "Devo cominciare dall'inizio", racconta il direttore della fotografia per spiegare. "A 28-29 anni ho capito che per riuscire a essere davvero dentro una cultura, bisogna conoscerne la lingua. Più o meno io so l'inglese: sono australiano, nessuno è perfetto. Allora sono andato a Hong Kong a studiare il cinese, perché non avrei potuto farlo in Cina. C'era la rivoluzione là. La mia insegnante era una poetessa, ed è stata lei a chiamarmi Du Kufeng. È il nome di un poeta, ma significa anche 'come il vento', per questo il documentario su di me si chiama Wind. Significa essere una persona di qualità, che talvolta si può definire un gentiluomo, a volte deve essere come il vento. Se fai il marinaio sai che a volte è favorevole, altre non c'è proprio. Il mio viaggio è stato cercare di essere all'altezza di questo nome meraviglioso, ma non ci sono ancora riuscito".
Lo dice anche nel documentario, un attimo prima di passare dall'inglese al cinese. Sostiene che questo è il suo viaggio interiore, lo scopo della sua vita, e che a Du Kufeng non piace Chris Doyle. "Il mio alter ego pensa che Chris Doyle sia un pezzo di merda. La maggior parte delle persone non sa che io sono lui, perché io sono Du Kufeng. Doyle e Du Kufeng hanno raggiunto l'equilibrio tra la soggettività e l'oggettività".
Partire da un nome per diventare qualcuno
"Mentre studiavo il cinese all'università di Hong Kong, mi sono imbattuto in un sacco di registi che sarebbero stati fondamentali per la Cina. Yung mi disse che mi voleva con sé. Prima di allora non avevo mai toccato una camera in 35mm, non avevo assolutamente idea di cosa fossero la luce e l'illuminazione". Christopher Doyle ha sempre agito così, impulsivamente. E oggi passa dal cinema orientale a quello occidentale come se nulla fosse. "Il mio primo film in occidente è stato Psycho", racconta. "Volevo lavorare con degli amici, per questo ho diretto la fotografia per Gus Van Sant. Avevamo un sacco di materiale utilizzato per l'originale, che poi abbiamo ricostruito e che è inserito nel film. Ma la versione di Gus è a colori, quindi il mio lavoro è stato solo di beccare i colori giusti. Il resto è stato facile".
Chris Doyle è un istrione. Si alza in piedi e fa lo show. Imita Van Sant, fa le smorfie, la pantomima, prendendolo in giro per la precisione sui set occidentali. "In Asia non si lavora così, sul quel set mi è parso di impazzire. Quello che so io è che basta premere il pulsante verde e la macchina si mette in azione". Ovviamente è un'iperbole, ma si sa che Doyle è un artista che procede seguendo i propri errori e traendone insegnamento. Lo sostiene anche all'interno di Wind. E come esempio racconta ancora. "Quando lavoravo su Fallen Angel, c'erano attori con i quali potevamo lavorare solo per una giornata. Qualcosa andò storto e tutta la pellicola venne fuori sbiadita. Allora ho proposto di stampare la scena in bianco e nero. Il risultato era buono. Allora ho detto che non potevamo avere solo una scena così, ho suggerito di inserirne altre in bianco e nero qua e là e tutti avrebbero pensato che era stata una scelta stilistica. Quando il film arrivò a Cannes, tutti apprezzarono questa "scelta". L'errore a volte è il punto di partenza".