A distanza di un anno dal debutto al Sundance Film Festival e dopo aver raccolto oltreoceano numerosi consensi tra festival e premi della critica, arriva finalmente anche in Italia Chiamami col tuo nome. Fresco di quattro nomination agli Oscar, Luca Guadagnino non poteva trovare momento migliore per fare il suo ritorno a casa e presentare anche al pubblico italiano un film che ha emozionato e convinto le platee più prestigiose del mondo. Un film che, nonostante l'ambientazione italiana e la nazionalità del regista, è un dramma dal respiro internazionale, una storia d'amore di grande delicatezza ed un coming of age sentito e sincero. In poche parole, davvero un piccolo capolavoro.
Non capita tutti i giorni di vedere all'estero tanto entusiasmo per un film di un regista italiano, ed è giusto andarne fieri, perché questa volta sì, parliamo davvero di un successo plebiscitario e indiscutibile. Non di quelli costruiti e montati ad arte dalla stampa nostrana per motivi di stupido e controproducente patriottismo, ma su meriti reali e facilmente riscontrabili da chiunque abbia un po' di gusto ed esperienza in campo cinematografico.
Leggi anche: Chiamami col tuo nome: l'estate calda delle prime volte
Elio suona da solo
Non che Guadagnino sia diventato tutto ad un tratto un regista inattaccabile: alcuni eccessi e forzature tipiche del suo cinema sono presenti anche qui, ma non ci sono dubbi che questa volta abbia trovato il perfetto equilibrio tra la sua visione artistica e la storia che vuole raccontare. Sicuramente aiutato da un buon materiale di partenza, l'omonimo romanzo di André Aciman, e dalla sceneggiatura del miglior James Ivory da un paio di decenni a questa parte, il regista siciliano riesce a trasportare molte suggestioni del cinema europeo (Renoir e Bresson sono due riferimenti espliciti) in una pellicola che ha il sapore dell'indie statunitense, senza per questo perdere nulla della solarità e veracità tipica del suo cinema e della sua terra.
Se il precedente A Bigger Splash funzionava solo a metà, mostrandosi tanto naturale e vivo nella prima parte quanto artefatto nella seconda, qui Guadagnino non solo corregge il tiro ma riesce ad andare oltre il mero racconto. Come per i migliori film che raccontano la crescita, permette agli spettatori un'immedesimazione totale e ci fa così diventare il suo personaggio, ci fa vivere i suoi turbamenti. Guadagnino più volte ha citato Bernardo Bertolucci come suo punto di riferimento assoluto ed alcuni lampi del cinema del Maestro si potevano intravedere già nelle opere precedenti. Ma è solo qui che emerge in pieno la passione e la vitalità di quel cinema che da tempo insegue. Perché non è solo il setting a ricordare quel bellissimo, ma sottovalutato, Io ballo da sola. Ma è lo spirito giovane, ribelle ma anche ferito che i hanno in comune i protagonisti dei due film.
Leggi anche: Bernardo Bertolucci: cinema e politica tra Marlon Brando e Godard
Una crescita da Oscar
D'altronde se il protagonista Timothée Chalamet è stupefacente, e infatti proverà fino all'ultimo a soffiare l'Oscar a Gary Oldman, il merito è in primis di Guadagnino. Non dell'ottimo script o del romanzo di provenienza o della tematica gay o delle scene "scottanti". Il merito è del regista che è riuscito a infondere quel senso di urgenza e irrequietezza nel suo giovane e talentuoso protagonista. È riuscito a ricordare agli spettatori cosa vuol dire avere 18 anni, ed essere confusi, spaventati e costantemente eccitati. Dal sesso, da ciò che è nuovo e proibito e da tutto quello che può essere incluso nella spensieratezza ma anche nella noia di un'intera estate.
Leggi anche: Chiamami col tuo nome, Luca Guadagnino: "Timothée Chalamet e Armie Hammer sono dei grandi talenti"
Ha scelto non di raccontarci una storia, ma di raccontarci un periodo della vita che abbiamo vissuto tutti e che a volte facciamo fatica a ricordare. O che abbiamo volutamente scelto di dimenticare perché - parafrasando lo splendido monologo finale - vogliamo "guarire più in fretta, e per poi ritrovarci a 30 anni già inariditi, diventare insensibili e non avvertire nulla". Michael Stuhlbarg conclude con "che spreco!" ed è proprio così che viene da sentirci dopo aver visto un film del genere. Viene voglia di tornare indietro nel tempo e provare a vivere con più coraggio, con più strafottenza, con più incoscienza. E senza aver paura di farsi male.
Se tornare indietro non si può, per fortuna c'è il cinema ad aiutarci a ricordare certe sensazioni. E per fortuna ci sono film come questo che ci permettono non di ascoltare una storia, ma viverla. E non importa che sia una storia d'amore omosessuale, perché quello che ci racconta Guadagnino è successo a tutti noi a prescindere dal sesso, dal luogo e dall'età. Tutti abbiamo fatto scelte, tutti abbiamo rimpianti, tutti siamo cresciuti. Così com'è cresciuto questo regista che oggi si trova con un film candidato a quattro Oscar ed una nomination personale mancata solo per la troppa concorrenza.
Non sappiamo se il quattro marzo prossimo Call Me By Your Name riuscirà o meno a conquistare qualche statuetta (magari per la sceneggiatura o per la bellissima canzone originale di Sufjan Stevens), ma di certo una parte di noi fino alla fine continuerà a sperare in un miracolo: che qualcuno con in mano una busta dei vincitori chiami davvero il suo nome.