But you are the life I needed all along/ I think of you as my brother although that sounds dumb/ And words are futile devices
Un giorno questo dolore ti sarà utile
"Adesso soffri. Non invidio il dolore in sé. Ma te lo invidio, questo dolore". Sono le frasi che, nell'ultimo capitolo del romanzo di André Aciman, Elio Perlman si sente rivolgere da suo padre, al termine di un dialogo-confessione che, nel film, viene riprodotto mediante il toccante monologo affidato a Michael Stuhlbarg. E nel finale, tanto nel libro, quanto nella trasposizione diretta da Luca Guadagnino, l'elogio della sofferenza occupa un ruolo essenziale: è la fiera rivendicazione del dolore come parte integrante dell'esperienza umana, l'ineludibile contraltare di ogni vera felicità.
E questo dolore è l'unico antidoto all'anestesia dei sentimenti che rischia di prendere il sopravvento con il sopraggiungere l'età adulta, a un'atarassia contro la quale il signor Perlman esorta il figlio a resistere con tutte le forze. Per riprendere le parole di Aciman: "Rinunciamo a tanto di noi per guarire più in fretta del dovuto, che finiamo in bancarotta a trent'anni, e ogni volta che ricominciamo con una persona nuova abbiamo meno da offrire. Ma non provare niente per non rischiare di provare qualcosa... che spreco!". È il suggello, struggente nella sua semplicità, di un romanzo sublime e di un film altrettanto magnifico, che dagli entusiasmi festivalieri alla ribalta degli Oscar si è imposto con pieno merito come uno dei titoli più importanti dell'anno, uno di quelli di cui si continuerà a parlare ancora a lungo.
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Un'estate d'amore
Felicità e dolore, nella loro complementarità, costituiscono dunque il fulcro di Chiamami col tuo nome, un racconto di formazione che ambisce al livello più elevato di mimesi. E se questa immedesimazione, nelle pagine di Aciman, è veicolata dall'utilizzo della prima persona, con il diciassettenne Elio scelto come unica voce narrante dell'opera, nel film il regista palermitano Luca Guadagnino cerca di aderire quanto più possibile al punto di vista del personaggio, che trova una perfetta incarnazione nel corpo efebico, nei tratti delicati e nel volto meravigliosamente espressivo dell'attore canadese Timothée Chalamet. Del resto, Chiamami col tuo nome è in tutto e per tutto il romanzo di Elio: la cronaca di un'estate d'amore destinata a segnare una cesura fondamentale nella sua giovane esistenza in seguito all'incontro con il ventiquattrenne Oliver, affidato al fisico aitante e all'aspetto da tipico All-American boy di Armie Hammer.
Ecco, la straordinarietà del film di Guadagnino va ricercata innanzitutto in questo: nell'urgenza con cui Chiamami col tuo nome annulla ogni distanza critica fra i protagonisti e lo spettatore per farci sentire, con quanta più forza possibile, le sensazioni, l'estasi e i tormenti di Elio e di Oliver. Fra i dichiarati modelli d'ispirazione di Guadagnino figurano autori quali Jean Renoir, Bernardo Bertolucci, con più di un'eco di Io ballo da sola, ed Eric Rohmer, altro eccelso cantore di palpiti giovanili e di passioni estive; ma se Rohmer mantiene sempre un'acutissima lucidità 'intellettuale' nel descrivere le girandole amorose dei propri personaggi, perfino in pellicole come Pauline alla spiaggia e Racconto d'estate, in Chiamami col tuo nome l'empatia nei confronti di Elio è totale. E il film, di conseguenza, è interamente modellato su di lui, sul suo sguardo al contempo avido e timoroso, sulla tempestosa precarietà dei suoi stati d'animo.
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"È meglio parlare o morire?"
I due precedenti film di Guadagnino, le due pellicole che lo hanno lanciato sulla scena internazionale, raccogliendo consensi soprattutto sul suolo americano, sono entrambi frutto di sceneggiature originali: Io sono l'amore del 2009, melodramma dal taglio viscontiano collocato nella cornice dell'alta borghesia di Milano, e A Bigger Splash del 2015, che da La piscina di Jacques Deray recupera a malapena lo spunto da cui elaborare un imprevedibile thriller a sfondo erotico. Chiamami col tuo nome, pur attenendosi con fedeltà alla fonte letteraria, prosegue la riflessione del cinema di Guadagnino sui meccanismi del desiderio, e in tal senso il regista non avrebbe potuto sperare in un'occasione migliore: perché il capolavoro di Aciman, pubblicato nel 2007 e adattato dalla sapiente penna di James Ivory (regista, nel 1987, di un'autentica pietra miliare del cinema a tematica omosessuale, il Maurice tratto da Edward Morgan Forster), è davvero una delle più dense esplorazioni del concetto di desiderio che la letteratura contemporanea possa offrirci.
"È meglio parlare o morire?", domanda il cavaliere alla principessa di cui è innamorato nel racconto citato da Aciman; ed è lo stesso dilemma che Elio pone a se stesso, in preda alla passione faticosamente repressa per Oliver. È l'interrogativo che chiude la prima sezione del romanzo, intitolata Se non dopo, quando? (il "later" ripetuto a più riprese da Oliver), e in cui è racchiuso il segreto della stupefacente sensualità del libro: l'attesa di un momento procrastinato per oltre settanta pagine (e per circa la metà del film). "L'anima del piacere è nella ricerca del piacere stesso", scriveva Blaise Pascal, e Chiamami col tuo nome è esattamente questo: un racconto sulla ricerca del piacere, su un desiderio che alimenta se stesso proprio in quanto impossibilitato ad essere soddisfatto nell'immediato.
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L'educazione sentimentale di Elio
E Guadagnino e Ivory, nei rispettivi ruoli di regista e sceneggiatore, costruiscono a loro volta il film attorno al desiderio divorante di Elio: un desiderio che, nel languido scenario bucolico della campagna lombarda, si manifesta negli occhi curiosi e ardenti di Elio/Chalamet; in quei candidi corpi maschili, illuminati dal sole o imperlati di sudore, a cui la cinepresa si avvicina quanto più possibile; nella scena, sulle note di Radio Varsavia di Franco Battiato, di masturbazione con una pesca, in un'apoteosi del binomio vitalistico di cibo e sesso; nel suggestivo piano sequenza della dichiarazione di Elio, con la regia che segue i due protagonisti attorno al monumento ai caduti, come in una sorta di misteriosa danza; nei baci rubati tra i fili d'erba di un angolo del bosco, la "collina di Monet" del libro.
C'è un'altra scena bellissima in cui il desiderio di Elio si sprigiona in silenzio, ma per la prima volta con evidenza innegabile: la serata di ballo in paese. Dalla romantica malinconia di Lady, Lady, Lady, ripresa dalla colonna sonora di Flashdance, mentre una gelosia logorante trapela dallo sguardo di Elio, si passa di colpo al ritmo di Love My Way degli Psychedelic Furs, il brano che spinge il ragazzo a raggiungere la pista accanto a Oliver e che, più tardi, fungerà da Madeleine proustiana per la coppia. Si tratta di due canzoni appartenenti al biennio 1982/1983 che, come altri titoli della soundtrack, riconducono immediatamente a quel periodo, rievocando un frammento ben preciso dell'immaginario (italiano, ma non solo) della prima metà degli anni Ottanta: J'adore Venise di Loredana Bertè, Paris Latino dei Bandolero e Words (Don't Come Easy) di F.R. David, con quel famoso ritornello ("Words don't come easy to me/ How can I find a way to make you see I love you") che riecheggia il dramma di Elio.
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"Blessed be the mystery of love"
La musica contribuisce dunque a ricreare un determinato contesto storico-culturale, con il suo relativo carico di nostalgia, insieme ad altri elementi della routine familiare di Elio: Beppe Grillo che fa capolino da un televisore acceso, un'animata discussione a tavola su Bettino Craxi e il Pentapartito. Ma in Chiamami col tuo nome c'è anche altra musica: una musica extradiegetica, che non appartiene alla realtà della narrazione ma si fa voce dei dissidi interiori di Elio e della portata sempre più ampia del suo sentimento. E la voce è quella intima e carezzevole del cantautore americano Sufjan Stevens: Futile Devices apre una parentesi notturna e quasi onirica, prestando ad Elio quelle parole che lui non ha ancora avuto il coraggio di pronunciare ("And I would say I love you, but saying it out loud/ Is hard, so I won't say it at all"), mentre Mystery of Love celebra con ineffabile dolcezza l'idillio fra i due innamorati ("Oh, will wonders ever cease?/ Blessed be the mystery of love").
Ed è un'ultima, splendida canzone di Stevens, Visions of Gideon, ad accompagnare Elio nella sequenza conclusiva del film, mentre sullo schermo scorrono i titoli di coda. Rispetto agli altri brani della colonna sonora, quelli di Sufjan Stevens potrebbero apparire, perlomeno sul piano stilistico, come una forma di anacronismo, ma si tratta di un anacronismo intenzionale e necessario: sono le canzoni di Elio, estranee al tempo del racconto perché appartengono al ragazzo, al suo personalissimo universo emotivo, alla rielaborazione di un capitolo della sua vita che gli sta scivolando fra le dita per essere inghiottito dal passato. Una fugace telefonata che arriva come un colpo al cuore, in una scena da pelle d'oca, e poi la camera fissa su un lungo, dolente primo piano, sostenuto da Timothée Chalamet con un'intensità che toglie il fiato. È ciò che resta ad Elio alla fine del film: i ricordi della sua estate con Oliver, le "visioni di Gideon" e la sofferenza di quel primo amore, in tutta la sua inestimabile bellezza.