C'era una volta a... Hollywood, attualmente nelle sale, ci mostra un Quentin Tarantino più nostalgico nel voler rappresentare la forza del Cinema che modifica gli eventi della Storia. Eppure, proprio questo lato malinconico e poetico del film, sembra nascondere una realtà ben diversa. Prima di proseguire con la nostra teoria sul finale di C'era una volta a... Hollywood, una doverosa avvertenza: seguiranno spoiler sul film.
C'era una volta a... Hollywood conclude l'ufficiosa Trilogia del Revisionismo Storico di Quentin Tarantino dopo Bastardi senza gloria e Django Unchained. È proprio con il capolavoro di dieci anni fa che l'ultima fatica del regista di Knoxville è stata paragonata, sin dalla presentazione a Cannes dello scorso maggio, soprattutto, secondo il parere di molti, a causa di un finale tematicamente troppo simile. Nonostante, come già analizzato su queste pagine a proposito del finale di C'era una volta a... Hollywood, un punto in comune tra i due film sia innegabile (dopotutto parliamo di tre film con un trait d'union tematico), non si fatica a vederne la differenza nella messa in scena, nello stile e nei risultati. Parafrasando un classico di Marsellus Wallace: "Se vuoi dire che mette in mostra la forza del cinema capace di cambiare la Storia, è così; se vuoi dire che cambia la Storia, non è così". Al suo nono film di dieci dichiarati, Quentin Tarantino accetta il fatto di essere ormai un cinquantenne che si è divertito abbastanza ("Credo che dirigere film sia un'attività per i giovani" diceva qualche anno fa e da allora non sembra aver cambiato idea) tanto da poter abbandonare nel finale la dimensione ludica del suo cinema prediligendo un lato più malinconico e nostalgico. Nel raccontare la storia della fine di un'epoca - storia di cui abbiamo parlato anche nella nostra recensione di C'era una volta a... Hollywood - nel mettere in mostra attori del cinema di serie B che vedono il capolinea della loro corsa, Tarantino riflette anche sul suo cinema e sulla fine della sua carriera.
Non è un caso che in questo film i piedi, il simbolo di massimo feticismo del regista, siano sporchi, grezzi, pieni di calli, quasi fossero marci. E' la dimostrazione che quel cinema, quello di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e, di conseguenza, quello che Tarantino ha amato e reinterpretato, sdoganato ed elevato, non è più possibile e che, per quanto ci abbia emozionato nel tempo, per quanto ci abbia raccontato storie importanti (vedasi la scena di Rick Dalton che legge il romanzo western, riassunto della sua vita), stia giungendo al termine. E non è un caso che il film contenga molti riferimenti agli otto film precedenti del regista (Kurt Russell è uno Stuntman Mike che ancora lavora, il set western è uguale a quello presente in Django Unchained, Rick Dalton brucia i nazisti in un suo film, l'aeroporto di Jackie Brown, per dirne alcuni) quasi a voler sottolineare come C'era una volta a... Hollywood sia, per Tarantino, un film testamento.
La fine della fiaba
Il sentimento di morte è legato alla figura di Charles Manson e la banda di hippie. In una lunga e riuscita sequenza ambientata nel covo della comune, Tarantino utilizza la grammatica dei film horror. Ecco che il ranch, un set cinematografico dismesso, diventa un cimitero della settima arte e trasforma il gruppo di hippie in un gruppo di zombie che si prendono cura del vecchio George (come Romero?). La classica operazione postmoderna che abbiamo imparato a conoscere come modus operandi del regista perde il suo aspetto ludico: non è più un puro gioco citazionistico, ma metafora del film. È presente un'inquadratura che richiama esplicitamente La notte dei morti viventi (George A. Romero, 1968), quando gli hippie vengono inquadrati di spalle mentre si muovono lentamente all'unisono, ma ciò che viene richiamato è soprattutto il ruolo dello zombie dei film di Romero, quella macchina di morte lenta e inesorabile. Nel momento in cui entra in gioco la personificazione della morte (e la setta di Manson, in quell'agosto del 1969, lo è stata davvero) in un film crepuscolare che racconta con nostalgia un'epoca che non esiste più, il gioco sfuma e si preannuncia il finale del film. Il breve, divertente e liberatorio scontro finale, in puro stile Tarantino, sembra voler sconfiggere la morte e ribaltare le aspettative alla maniera dei Bastardi e di Django e, per certi versi, ci riesce. L'eccidio di Cielo Drive, grazie al cinema, non è mai accaduto e possiamo continuare a sognare. In realtà, non è solo così.
Sharon Tate, Charles Manson e la strage di Bel Air: l'estate d'orrore del '69
E vissero per sempre...
Nel terzo atto di C'era una volta a... Hollywood siamo accompagnati da una voce narrante che, unita a uno stile da film di ricostruzione storica, ci riassume le ore precedenti a quello che dovrebbe essere il massacro in casa di Sharon Tate. Ciò che viene sottolineato è come tutti i personaggi del film, quella sera, non siano in un'ottimale condizione psicofisica: Sharon Tate sente molto la sua gravidanza e i suoi tre amici bevono diciannove margaritas, Rick Dalton ha deciso di sbronzarsi e Cliff porta a spasso la sua Brandy fumando una sigaretta intinta nell'acido. Come quando passiamo senza accorgercene, a metà film, dal backstage della serie western al vero e proprio pilot televisivo già montato (almeno fino a quando Rick Dalton non scorda le battute), nel finale passiamo dalla realtà alla finzione cinematografica. In poche parole, quello che lo spettatore vede è il potere del cinema di falsare la realtà filtrato attraverso le droghe assunte dai personaggi e, a un livello metatestuale, dalla fantasia dello stesso Quentin Tarantino (d'altronde chi può portarsi a casa un lanciafiamme funzionante da un set cinematografico?).
Secondo la nostra teoria sul film, nella realtà, invece, è che questa volta non c'è alcun revisionismo storico. Non c'è nessun Rick Dalton che cambia la Storia con la S maiuscola e la setta di Manson non muore brutalmente nella casa sbagliata. La realtà è che la strage di Bel Air è accaduto realmente e quell'epoca in cui il film ci ha immerso è davvero finita, quel 9 agosto del 1969. Nella scena conclusiva del film Rick Dalton si trova davanti ai cancelli del paradiso che si aprono dopo che Sharon Tate, l'angelica Sharon Tate, decide di accoglierlo. Dopo il cancello, il viale, illuminato da luci bianche, che porta verso l'alto, una salita che Dalton scala insieme a San Pietro/Jay Sebring (Emile Hirsch), ex ragazzo della Tate, mentre la macchina da presa con un dolly a volo d'angelo sale con i personaggi. Arrivato in cima, Dalton si riunisce con un abbraccio alle quattro vittime della strage. La realtà è che la morte ha vinto: è morta Sharon Tate con i suoi tre amici ed è morto Rick Dalton con il cinema che rappresenta. Tutto questo è accompagnato dall'unica musica extradiegetica del film, completamente strumentale, esterna alla contemporaneità del racconto.
C'era una volta a... Hollywood: guida ai personaggi reali nel film
Solo allora compare il titolo del film, con quel C'era una volta che richiama, a questo punto, il tardo cinema di Sergio Leone, quello che univa la malinconia e il sogno. Sogno che, nella tradizione cinematografica dei film che parlano di Hollywood e di Los Angeles, la città degli angeli, si lega indissolubilmente al concetto di morte e al regno dei morti (basti pensare a INLAND EMPIRE di David Lynch per citarne uno) e non è un caso che il primo contatto tra Rick Dalton e Sharon Tate sia tramite la voce, lo spirito e non il corpo. Forse è questo il punto di arrivo del cinema di Quentin Tarantino: non (solo) un'operazione postmoderna, ma un gesto d'amore.
In Heaven... Everything is fine.