Si scrive "Caporetto", si legge in una miriade di modi. Un solo nome per dire tante cose, per rievocare una sconfitta storica, un buco nero nel tricolore. Perché Caporetto non fa rima solo col ricordo della più cocente sconfitta nella storia dell'esercito italiano, non fa rima solo con quei morti sepolti nel 1917 e pianti cento anni. Caporetto è la parola che abbiamo affibbiato ad ogni successiva rovina. Caporetto è un governo che fallisce, Caporetto è la nazionale di calcio che non va ai Mondiali, Caporetto è una nave da crociera che si incaglia, un terremoto che inghiottisce un paese intero. Ogni ferita italiana si è rispecchiata nel nome di quel piccolo comune sloveno, come un timbro impresso a fuoco sulle nostre ferite. Parte da qui Cento anni, il documentario di Davide Ferrario in arrivo al cinema il 4 dicembre. Presentato nella sezione Festa Mobile del 35esimo Torino Film Festival e scisso in quattro atti, il film di Ferrario racconta quattro momenti nazionali indelebili nella memoria collettiva.
La battaglia di Caporetto, la Resistenza antifascista, la strage di Piazza della Loggia e la desolazione attuale del Sud vengono raccontati attraverso documenti storici, parole poetiche, documenti e romanzi. Ne emerge un ritratto nazionale contraddittorio quanto veritiero, consapevole e lucido nonostante lo sguardo spesso lirico. L'Italia come luogo della catastrofe da cui nasce il riscatto, gli italiani come popolo votato alla resilienza, capace di riconoscersi e di ritrovarsi nel dolore.
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A cosa servono i morti
Dal 1917 al 2017. Dalle macerie alla desolazione. In mezzo ci sono storie di morte e di ricordi rievocati con immagini e suoni, assieme alla volontà di abbracciare il lutto per tirarne fuori qualcosa di utile per qualsiasi futuro. Fatta eccezione per il primo atto, che risulta quello più artefatto e didascalico, Cento anni evita il più possibile il freddo racconto documentaristico e sceglie la via della suggestione. Così, in mezzo a racconti tremendi di abbandono, di orfani, di omicidi e di attentati, si fa strada la ricerca di una scintilla di senso, utile a trovare un'utilità persino nel cordoglio. Questo succede perché Ferrario si affida poco alla volta a delle voci personali, a dei racconti di vita vissuta (e vessata), sia attraverso delle testimonianze dirette, sia recuperando opere letterarie come L'eco di uno sparo, scritto da Massimo Zamboni ed edito da Einaudi. Quando Cento anni si incunea sottopelle nelle esperienze reali e tralascia la recitazione cinematografica trova la sua strada migliore, anche se impervia. Una strada lontana dal vittimismo e dalla retorica, vicina alle contraddizioni umane, ai partigiani poi diventati assassini, ad un Paese che si vuole troppo male, che sa accogliere bene e sa essere anche respingente.
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A cosa servono i vivi
Lungo questo secolo pieno di cadute e di risalite, il "nemico" ha cambiato faccia, si è dimostrato mellifluo e camaleontico. Perché se Caporetto ha segnato l'inizio dell'invasione austro-ungarica, il fascismo ha visto nascere un male intestino e fiero di sé, per poi trasformatosi in atroce terrorismo. Ed è un male ancora più infido quello che affligge il Sud svuotato dei suoi giovani e dei suoi talenti. È un male malinconico pieno di paesaggi desolati e desolanti, dove solo la poesia riesce a mitigare la nostalgica e a colmare la lontananza tra chi resta e chi rimane. Lungo questi temi così diversi tra loro ma toccati tutti con lo stesso tatto, Cento anni riesce a dare forma ad un carattere nazionale ben preciso. Lo fa con amarezza e sincerità spietata, evitando un senso di appartenenza nazionalistico ed euforico. In questo documentario si nasconde la carta d'identità stropicciata di una nazione per cui la sconfitta è stata fonte di speranza, che cade sempre e si rialza di continuo, che si lamenta ed è ottusamente orgogliosa, un posto insofferente alle regole, che segue la solita legge: resistere e non arrendersi mai alla propria bellezza.
Movieplayer.it
3.5/5