C'è un termine che nel tempo si è sempre più fatto largo nel parlato comune; è una parola che dalla lotta femminista si è insidiata nella profondità dei nostri discorsi, rendendo conscio il genere femminile di un'ulteriore forma di discriminazione e di snaturamento delle proprie abilità. È il mansplaining, crasi tra "man", uomo, ed "explaining", spiegazione. Con tale termine si vuole indicare l'atteggiamento prettamente maschile attraverso il quale, con una dissimulazione dai toni bonari e paternalistici, ci si arroga il diritto - solo perché uomini - di spiegare con presunzione un dato concetto supponendo che il proprio interlocutore - solo perché donna - non ne sia a conoscenza.
E in maniera sottilmente implicita, tale atteggiamento ha sempre vagato nel mondo del cinema; lo ha fatto davanti alla macchina da presa, dove alle donne era affidato il ruolo di un'eroina d'amore destinata a realizzarsi solo in funzione alla figura maschile da ella amata; e lo ha fatto dietro la macchina da presa, viziando un antico pregiudizio che vuole le registe limitate a raccontare solo storie d'amore perché è quello l'argomento su cui sono maggiormente ferrate.
Eppure le donne, di universi complessi e divergenti - anche estranei a quelli amorosi - ne conoscono tanti; lontane dalle frecce di Cupido, autrici da tutto il mondo hanno dimostrato di sapere raccontare mondi interiori che si slegano da fantasie romantiche; mondi dove al posto di un "io" al femminile, c'era sempre un "noi" di coppia. Sono registe che hanno raccontato le donne svestendole di quell'abito pesante di eroine d'amore, per rivelarsi (magari senza nemmeno saperlo) eroine e basta. Donne che vanno avanti facendo passi indietro, che compiono gesti - piccoli o grandi che siano - partendo comunque dal presupposto di essere delle nullità, e che là fuori non ci sarà mai nessuno ad applaudirle perché è un mondo ingiusto e "noi siamo donne" come ricorda Rurh alla figlia Rose in Titanic. Liberate da quello che è stato denominato il "complesso di Cenerentola", le donne raccontate dalle registe al cinema non sono più damigelle in difficoltà, o giovani sognatrici in perenne attesa del proprio principe azzurro. Sono donne che nascono dalla fantasia delle proprie autrici per vivere liberamente un'esistenza a tratti ordinaria, semplice, dove l'incontro bruciante con la figura maschile, se avviene, è solo per poter crescere interiormente, senza per questo legarsi a un eterno "e vissero felici e contenti".
Paola Cortellesi con il suo C'è ancora domani rientra perfettamente nei dettami di tale discorso. Al debutto alla regia, Paola redige un manifesto commosso, sincero, di un'Italia abitata da donne che non osano sfuggire ai canoni imposti dalla propria società; sottomesse, creano di nascosto un megafono attraverso cui altre donne potranno in futuro affidarsi per poter far sentire la propria voce, senza più paura, senza più timori. Sono donne che la storia, quella con la S maiuscola, non celebra, ma che il cinema di personalità sensibili come Paola Cortellesi raccoglie e restituisce senza urla, o grida, ma con un sospiro profondo, lo stesso che queste donne compiono prima di uno schiaffo, o prima di chiudere gli occhi, sognando un futuro migliore che loro stesse, nel loro piccolo e senza nemmeno saperlo, sono in procinto di realizzare.
Ma prima di Paola Cortellesi, altre registe hanno camminato lungo questo percorso, affidando allo spazio di visione esistenze ordinarie di donne che agiscono, sognano, corrono in compagnia di dolori e delusioni, amiche e sorelle, amanti e traditori; un patchwork emotivo che va a completare un collage intimo di mille sfaccettature, le stesse che abitano nel corpo e nell'anima di donne complesse e semplici, amorevoli e vendicatrici, sensibili e ambiziose. Scopriamo allora insieme le 5 migliori registe che hanno saputo raccontare con le proprie opere l'universo femminile.
1. Greta Gerwig (Lady Bird, Barbie e Piccole Donne)
Sono donne animate da uno spirito di intraprendenza quelle di Greta Gerwig; sono ragazze che corrono veloci su strade affollate, alla ricerca di un proprio posto nel mondo, inciampando, cadendo, per poi rialzarsi e così riprendere il cammino, per riprovare tutto daccapo. Che siano ideali pronti a incarnarsi in un corpo femminile imperfetto, (Barbie), piccole donne dal cuore grande, decise a ribaltare le aspirazioni altrui per realizzare le proprie (Piccole Donne), o giovani che tentano di volare con le proprie ali, per poi cadere senza paracadute nella terra sconosciuta dei grandi (Lady Bird), le donne che abitano l'universo di Greta Gerwig sono tutte sorelle e discendenti di quello stesso nucleo creativo che ha dato vita sia narrativamente, che attorialmente, ad altre donne, rese tangibili dalla cinepresa di Noah Baumbach e incarnate dalla stessa Gerwig.
Discostandosi da quell'ideale sorpassato della donna come metà di una mela alla ricerca del proprio principe azzurro, Greta Gerwig tratteggia le proprie eroine svestendole di perfezione, per riempirle di difetti, ambizioni e desiderio di indipendenza. Sono donne che pensano di sapere cosa vogliono, ma non ciò di cui necessitano, risultando per questo maledettamente vere, reali, fragili... imperfettamente umane.
Da Frances Ha a Barbie, o di come imparammo ad amare Greta Gerwig
2. Sofia Coppola (Il giardino delle vergini suicide)
Se abbiamo potuto ammirare serie tv come Girls di Lena Dunham, o film come quelli firmati da Greta Gerwig, molto dobbiamo all'opera di Sofia Coppola. Tra le prime paladine di una nuova visione della donna contemporanea al cinema, lontana dalle costrizioni sociali, e dai legami sentimentali che la vogliono prototipo della donna amorevole e sognatrice, Sofia Coppola offre in dono ai propri spettatori un corollario femminile di anime ribelli, sovversive, incomprese, a tratti letali. Un mondo rosa - ma non per questo zuccheroso - di ragazze pronte a diventare donne all'interno di uno spazio (domestico, urbano, storico) che non sempre le comprende, tenendole perfino prigioniere di se stesse. Uno stilema che prende corpo in nuce già dal suo febbrile esordio alla regia, quel Il giardino delle vergini suicide, dove ogni prerogativa, o aspettativa circa lo stereotipo della protagonista femminile, viene ribaltato a favore di un ritratto di adolescenti intraprendenti, indipendenti e desiderose di decidere autonomamente della loro vita (o della loro morte).
Lo scarto con genitori amorevoli, ma incapaci di ascoltare e comprendere i disagi altrui, e un universo maschile sordo e cieco circa le loro necessità, fa delle sorelle Lisbon apripista di un universo cinematografico tanto specifico della Coppola, quanto di un nuovo modo di raccontare le donne al cinema. Caratterizzato da quello che l'autrice stessa definisce come "female-gaze" ("sguardo femminile") il mondo di Sofia Coppola si colora di un'estrema femminilità che va a contrapporsi a un cinema da sempre dominato dal genere maschile, il cui sguardo ha nel tempo tracciato e consolidato un immaginario ben codificato in cui la donna era oggetto da immortalare, e non sguardo che immortala. E allora ecco che ogni orpello, ogni elemento di edulcorazione, retorica, e sottomissione, lascia spazio a figure tanto preraffaellite, eteree, angeliche, quanto fragili, complicate disilluse, incomprese, ignorate. In una sola parola: donne.
Sofia Coppola: da L'inganno a Lost in Translation, quando il cinema è femminile
3. Emerald Fennell (Una donna promettente)
La vendetta è un piatto che va servito freddo, e quello realizzato da Emerald Fennell nel suo debutto alla regia con Una donna promettente, è un pasto gelido, che fa rabbrividire, agitare, sconvolgere. I corpi femminili sono templi depauperati dal desiderio lascivo maschile, congelati dalla paura in uno sguardo cinematografico pronto a essere rianimato da un elettroshock vivo di adrenalina e vendetta a opera di Cassandra (Carey Mulligan). Non più angelo del focolare, ma furia di mille vendette, Cassandra si fa portatrice di pesi che hanno schiacciato anime fragile, verità mai raccontate, incontri infernali. Nessuna dolcezza, o accomodante edulcorazione; nel tracciare la propria anti-eroina, Emerald Fennell tralascia la bontà e la compassione affidata in maniera stereotipata alla figura femminile per vestirsi di fuoco glaciale.
Il suo tocco è vendetta, il suo sguardo morte. La sua stessa esistenza è come messa in pausa; ferma sulle sue posizioni e fedele al compimento del suo obiettivo, tutto le scorre davanti, mentre lei rimane immobile, prigioniera di una rete di giustizia attraverso cui dar voce a chi quella voce non ce l'ha più. Nel mezzo uno scarto cromatico tra colori accesi e tonalità desaturate, l'opera trova un punto di incontro nella riproposizione di strisce rosso acceso, metafora di violenza, sangue, fiamme di vendetta. La vendetta di una donna promettente che Emerald Fennell ha saputo raccontare senza retorica, o elucubrazioni, ma con la dolorosa verosimiglianza di una contemporaneità da molti conosciuta, denunciata, e a volte inascoltata.
4. Andrea Arnold (Fish Tank, American Honey)
Sono due ragazze così diverse, per estrazione sociale e nazionalità, cultura e tradizioni, eppure così simili tra loro, le giovani protagoniste di Fish Tank e American Honey. Chiamate a compiere i primi passi nel mondo dei grandi senza alcuna bussola a propria disposizione, Mia e Star si gettano a capofitto da sole in questa selva oscura, affidandosi solamente al proprio istinto primordiale. Gli incontri amorosi con Connor (Michael Fassbender) e Jake (Shia La Boeuf) sono filtrati da un'innocente evasione fanciullesca, rivelandosi ben presto un fuoco di paglia che per quanto doloroso e bruciante, servirà a entrambe per stabilire il proprio percorso personale di crescita.
Immortalate da quella camera a mano che fa delle opere della Arnold degli sguardi di stampo neoralistici su una realtà fittizia percepita come veritiera, le due ragazze si fanno guida a un'arco di evoluzione senza evoluzione, perché sospeso, costantemente in essere e divenire. Rivelatrici di un'esistenza popolare, ai margini della società, Mia e Star non hanno nulla di speciale da offrire, se non il racconto della propria vita; ed è nello spazio di ogni movimento, o sguardo basso, parolaccia urlata, o sospiro trattenuto, che la Arnold riesce nel suo intento non solo di raccontare un frammento di realtà femminile, ma anche di lasciare che siano le stesse protagoniste a narrarlo, senza intermediazioni, ma con semplice - per quanto immaginaria - onestà.
5. Catherine Hardwicke (Thirteen - Tredici anni)
Non c'è nulla di accondiscendente, edulcorato, o ammorbido nel racconto di Evie (Nikki Reed) e Tracy (Evan Rachel Wood) in Thirteen - Tredici anni di Catherine Hardwicke. Sembra quasi paradossale pensare come ancor prima di farsi artefice registica della storia d'amore ormai cult tra Bella e il vampiro Edward in Twilight, la regista americana abbia saputo immortalare con un'onestà quasi insostenibile le fragilità adolescenziali passando per abusi di sostanze stupefacenti, incontri sessuali fin troppo precoci, e conflitti interiori che squarciano l'anima di ragazze cresciute troppo in fretta. Ispirata alle esperienze personali della stessa Reed, la Hardwicke si fa guida virgiliana nella selva oscura di un'età delle scoperte, all'interno di un'ambiente umano che corre veloce, costringendo le giovani protagoniste ad annaspare e farsi grandi per stargli dietro.
Segnate da un approccio tanto improvviso, quanto spietato, a un mondo crudele interno ed esterno, alle mura domestiche, la vita delle due protagoniste viene restituita senza alcun sguardo addolcito da una sensibilità materna, o puritana; la regista decide così di denunciare realtà che (pre-)esistono e (soprav)vivono all'ombra delle perfette apparenze, mostrando un lato spesso ignorato dalla Settima Arte: quello di giovani donne che sbagliano per auto-sabotarsi, distruggersi, svanire, solo perché curiose, fragili, manipolabili, corrotte da universi sbagliati in mondi ingiusti.