Ancora oggi, il nome Carrie riporta subito alla mente uno dei personaggi simbolo dell'immaginario horror: un'adolescente oppressa ed emarginata, dotata di inquietanti poteri soprannaturali. Il nome Carrie, però, è legato anche a un doppio esordio a dir poco significativo: si tratta infatti del primo romanzo pubblicato dal maestro della narrativa di genere, Stephen King, nell'aprile del 1974, nonché della prima trasposizione di una delle sue opere per lo schermo (un totale identificabile attualmente in un numero a tre cifre).
Il 3 novembre 1976 debuttava infatti nelle sale americane Carrie - Lo sguardo di Satana, adattamento del libro di King da parte di Brian De Palma, regista italoamericano specializzato in B-movie d'alta classe e pastiche dal gusto postmoderno. Il 1976 sarebbe stato, non a caso, l'anno della consacrazione per De Palma, che per la prima volta avrebbe riscosso un grande successo di pubblico: in estate con il thriller psicologico Complesso di colpa e pochi mesi più tardi, appunto, con Carrie, destinato a rivelarsi un cult immediato e ad incrementare anche la popolarità di Stephen King.
Un racconto da brivido, Carrie: la storia di una vittima che si trasforma improvvisamente in carnefice e di una vendetta consumata nell'arco di una notte da incubo, in un'apoteosi di violenza e atrocità. De Palma e il suo sceneggiatore, Lawrence D. Cohen, traducono la particolare struttura del romanzo di King in una pellicola che si muove con disinvoltura fra commedia nera e smaccato grand guignol, riportando risultati strepitosi al botteghino (quindici milioni di spettatori solo negli USA, a fronte di neppure due milioni di dollari di budget) e consegnando agli annali dell'horror un vero e proprio classico. A dispetto degli scialbi tentativi d'imitazione (un sequel 'apocrifo' nel 1999, un remake televisivo nel 2002 e un ulteriore remake nel 2013), il film di De Palma è rimasto un modello impossibile da superare. In occasione del suo quarantesimo anniversario, vi proponiamo di seguito l'analisi di cinque ingredienti chiave della sua clamorosa fortuna.
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1. La crudeltà dell'adolescenza
È il primo tema ad emergere tanto dalle pagine di King, quanto dalla pellicola di De Palma: l'adolescenza vissuta come età della solitudine, ma sperimentata anche nei suoi aspetti più feroci. Secondo tale prospettiva, l'incipit del film non potrebbe essere più emblematico. Ci troviamo nello spogliatoio di un liceo del Maine, la Bates School (un ovvio riferimento a Norman Bates, e non l'unico omaggio a Psycho: basti ascoltare la colonna sonora di Pino Donaggio, che cita apertamente quella di Bernard Herrmann), dove la protagonista, una sedicenne minuta e dall'aria indifesa (ad interpretarla, in realtà, è una Sissy Spacek quasi ventiseienne), ha per la prima volta le mestruazioni e, non comprendendo l'origine di quel rivolo di sangue, viene colta dal panico. La reazione delle sue coetanee, per le quali Carrie White rappresenta un facile oggetto di scherno, è di assoluta meschinità: la spingono sotto il getto della doccia lanciandole assorbenti e asciugamani e la trattano come un freak, fino all'intervento dell'insegnante di ginnastica, Miss Collins (Betty Buckley).
Sarà solo la prima di una serie di vessazioni che culmineranno durante il ballo scolastico: King e De Palma, in sostanza, trasformano queste comuni liceali in un autentico 'branco', con la malevola Chris Hargensen (Nancy Allen, futura moglie e attrice musa del regista) ad incarnarne gli impulsi più ferini e gratuitamente crudeli. E in fondo, il primo elemento di inquietudine in Carrie è proprio questo: la perfidia spontanea degli adolescenti, causa dell'emarginazione e del senso di inadeguatezza della protagonista. Lasciando, però, uno spiraglio di speranza: quello simboleggiato dalla figura di Sue Snell (un'esordiente Amy Irving), nella prima scena fra le aguzzine di Carrie ma poi, colta dal rimorso, sua segreta 'benefattrice', al punto da convincere il fidanzato belloccio Tommy Ross (William Katt) a portare Carrie al ballo al suo posto.
2. "E la lussuria fu chiamata peccato"
Se l'adolescenza è dipinta come una fatidica età di passaggio, mentre la presa di coscienza di se stessi è segnata da traumi e sofferenza, il nucleo del malessere di Carrie risiede però altrove: in un'educazione severa e opprimente, nell'alveo di un conservatorismo religioso che sfocia direttamente nel fanatismo più sfrenato. Allevata dalla madre, Margaret White (Piper Laurie), in un'atmosfera ossessiva contrassegnata dalla paura delle tentazioni, Carrie viene tenuta all'oscuro sulla natura della propria femminilità (da qui la sua totale ignoranza riguardo il ciclo mestruale) e sconta sulla sua pelle quella sessuofobia per cui la donna è considerata inesorabile veicolo di peccato.
Ma per quanto Stephen King si fosse ispirato al clima bigotto della propria comunità, De Palma non mostra alcuna pretesa di analisi antropologica: il ritratto della religiosità morbosa di Mrs. White è talmente sopra le righe da restare ben lontano da qualunque ipotesi di realismo, mentre la statuetta di San Sebastiano con gli occhi fosforescenti (più da demonio che non da santo) è un dettaglio a dir poco kitsch. E sarà con gusto squisitamente iconoclasta che, nel finale del film, il regista farà assumere a una Margaret moribonda la medesima posa di San Sebastiano, lasciandole emettere gemiti da pura estasi erotica.
3. La signora White, l'anima nera del film
E non a caso è lei, Margaret White, una delle principali ragioni del successo del romanzo e del film: una moderna beghina dall'aria stregonesca, con il suo lungo soprabito scuro, simile a un mantello vampiresco, e la cascata di riccioli rossi. Per interpretare questa donna ai limiti della follia De Palma ingaggia Piper Laurie, talentuosa attrice di teatro che aveva abbandonato il cinema da ben quindici anni, dopo la sua apprezzata prova accanto a Paul Newman ne Lo spaccone. Per la Laurie sarà un ritorno alla grande, coronato dalla nomination all'Oscar, in uno di quei ruoli che valgono una carriera: l'attrice, infatti, non rifugge dai lati più assurdi e camp del proprio personaggio, pur evitando di scivolare nella parodia. Il risultato è una performance elettrizzante: dal suo autoritarismo da Inquisizione spagnola alle esplosioni di furia nei confronti della figlia, Piper Laurie tratteggia una delle "madri mostruose" più giustamente celebri negli annali del cinema. E quando, in uno dei momenti clou del film, si avventa contro Carrie armata di un lungo coltello da cucina, avvolta nell'ampia vestaglia bianca e con il volto ghignante rischiarato dalla luce rossastra delle candele, la signora White è trasfigurata definitivamente in puro spauracchio horror, quasi una variante dell'hitchcockiana signora Bates.
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4. Rosso sangue, rosso fuoco
Poco prima del confronto finale fra Carrie e sua madre ha luogo però la scena più famosa della pellicola: quella del ballo scolastico, del "bagno di sangue" e della mattanza immediatamente successiva. Una scena dal potere iconico ineguagliato, citata e imitata in innumerevoli occasioni (generalmente in chiave ironica), in cui Brian De Palma dà libero sfogo ai propri virtuosismi registici: dall'uso del ralenti per alimentare una suspense à la Alfred Hitchcock (vale a dire, il pubblico sa perfettamente cosa sta per accadere, a differenza della protagonista) all'espediente dello split screen, dall'urlo silenzioso di Sissy Spacek (a un tratto De Palma interrompe ogni suono diegetico, mantenendo solo la musica di Donaggio) ai primissimi piani dello sguardo di Carrie.
La climax del racconto è costruita con estrema sapienza, sfruttando al meglio le idee esplosive di Stephen King: il secchio colmo di sangue di maiale che precipita dall'alto sulla neo-eletta "reginetta del ballo" fa ormai parte del nostro immaginario, mentre la carneficina compiuta da Carrie sfruttando i propri poteri telecinetici, attraverso le fiamme di un furibondo incendio, trova oggi un tragico riscontro nelle stragi scolastiche di cui abbiamo spesso notizia dalle cronache americane. Tali massacri saranno forse meno pittoreschi, eppure è lecito supporre che a spingere all'azione quei giovanissimi assassini siano stati impulsi non troppo diversi da quelli di Carrie White.
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5. Lo sguardo di Carrie: Sissy Spacek
Infine, a proposito della grandezza del film di De Palma, è impossibile non riconoscere un contribuito senza il quale oggi, probabilmente, non parleremmo di Carrie con lo stesso fervore: quello fornito dall'interprete del ruolo del titolo, una sbalorditiva Sissy Spacek. Incredibilmente convincente nel calarsi nei panni di questa sedicenne fragile e mingherlina (a dispetto di una differenza anagrafica di addirittura dieci anni), l'attrice texana lanciata tre anni prima da Terrence Malick ne La rabbia giovane dà vita al personaggio a cui resterà più legata e che le permetterà di ottenere la sua prima nomination all'Oscar. Dal terrore infantile e semi-paranoico delle prime sequenze al perenne senso di insicurezza nelle parole e nei gesti, la Spacek definisce la sua Carrie mediante la voce e il corpo, ma soprattutto con lo sguardo: quei grandi occhi spalancati, al centro dell'ovale pallido del viso, da cui trapelano smarrimento, una progressiva consapevolezza e infine una furia cieca e senz'anima. Perché a incutere più paura, nella sequenza della strage al liceo, è proprio quello sguardo, uno sguardo sbarrato e completamente vuoto in cui non è più possibile cogliere alcuna traccia di umanità. E in fondo, cosa c'è di più spaventoso di un essere umano tramutato in una macchina di morte?