Il verdetto tanto atteso è arrivato, la beffa per gli italiani c'è stata e una delle edizioni più discusse del solitamente ottimo Festival francese si è conclusa.
Cosa rimarrà di questo Cannes 68? Probabilmente molto, troppo, ma non in positivo, perché a giudicare dalle tante reazioni di colleghi italiani e non (sia durante il Festival semplicemente chiacchierando per i corridoi del Palais, che sui social nelle ore immediatamente successive alla partenza e al ritorno a casa) non siamo i soli ad essere stati molto delusi.
Ma delusi da cosa? Ovviamente dai film presentati, perché quando si parla di un festival cinematografico quello che conta sono sempre e solo i film.
I disagi sono tanti, la stanchezza accumulata dopo 12 giorni - di proiezioni a tutte le ore, file per entrare in sala, articoli da scrivere e chi più ne ha più ne metta - si fa sentire e i difetti organizzativi non mancano mai, anche al di fuori dell'Italia; ma se c'è una cosa che può far dimenticare in un baleno tutto questo è la visione di un bel film.
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Della necessità dei bei film, più che dei grandi nomi
E quelli, per fortuna, non mancano proprio mai, anche se mai come quest'anno sono stati soprattutto i film fuori concorso (Mad Max: Fury Road, Inside Out, Irrational Man) a convincere tutti. Ma a parte questo, quello che spesso fa la differenza è il numero di questi film belli e il suo rapporto con quelli brutti. Non ne vogliamo fare una questione puramente aritmetica, per carità, ma vi assicuriamo che purtroppo la cosa ha un suo peso, soprattutto quando, per ovvie necessità, si è molto spesso costretti a scegliere tra il vedere film più importanti e prestigiosi (sulla carta ovviamente) e altri più anonimi e sconosciuti, ovvero scegliere se vedere film in concorso dai nomi altisonanti (con conseguenti file e attese di ore) e altri film nelle sezioni parallele di cui nessuno ha mai sentito parlare e il cui accesso sarebbe ovviamente molto più agevole. Molti, se non tutti, scelgono quasi sempre i primi (per curiosità, per necessità lavorative o semplicemente per non essere esclusi dal buzz) ma sempre più spesso accade che le cose migliori si trovano proprio nelle sezioni "minori".
Anche questo in realtà dovrebbe essere il bello dei festival, ma è anche vero che la selezione fatta dall'organizzazione dovrebbe permettere di far concorrere al premio più prestigioso (in questo caso la Palma d'oro) i film che sono sì più meritevoli ma per il loro effettivo merito e non solo per la firma. Questa tendenza invece di avere dei concorsi internazionali con nomi di grande appeal sia dietro che davanti la macchina da presa (qualcuno ha detto Sea of Trees?) sta portando a delle vere e proprie aberrazioni che finiscono poi con l'avere conseguenze sul palmares, sull'intera manifestazione e quindi sull'arte cinematografica stessa.
Il deludente palmarès di Cannes 2015
Cosa c'è di così deludente e scandaloso in questi premi assegnati dai fratelli Coen e il resto della giuria internazionale? Prima di tutto la Palma d'oro assegnata a Dheepan, un film poco incisivo e certamente non degno di finire negli annali del più importante festival cinematografico del mondo.
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Il regista Jacques Audiard è da tempo tra i registi francesi, anzi, tra i registi europei più interessanti degli ultimi lustri e proprio a Cannes aveva recentemente presentato due ottimi lavori, Il profeta e Un sapore di ruggine e ossa, il primo vincitore di un Gran Premio speciale della Giuria (oltre che 9 Cesar ed una nomination all'Oscar), il secondo ingiustamente ignorato al festival ma comunque molto amato in altre sedi (4 César vinti, e più di una nomination a Bafta e Golden Globes).
Audiard vince quindi la Palma d'oro con il film più debole della sua impressionante filmografia, ed è vero che si potrebbe vedere questo premio come una sorta di Palma di risarcimento per i film precedenti, ma allora quanti altri registi potrebbero dire di poter meritare lo stesso trattamento?
Un altro discorso è quello relativo agli altri premi assegnati ai film francesi: Vincent Lindon in The measure of a man è molto bravo, è il cuore del film, ed il premio è certamente meritato ma la concorrenza comunque non mancava, mentre sa veramente di beffa quell'ex-aequo assegnato a Rooney Mara per Carol e Emmanuelle Bercot per Mon roi. L'interpretazione della Bercot ha esaltato i francesi e infastidito e incattivito molti stranieri (soprattutto tanti colleghi italiani) sin dalla proiezione stampa, ma la verità come sempre sta probabilmente nel mezzo: non è magari un'interpretazione memorabile, ma sicuramente di qualità, con alcune vette ed anche un paio di cadute. Il problema vero qui è proprio l'ex aequo, perché in molto si aspettavano (giustamente) un eventuale premio diviso tra Cate Blanchett (equamente - e magnificamente - protagonista del film) e la Mara, ma di certo non di vedere esclusa l'attrice due volte premio Oscar, soprattutto quando il film di Todd Haynes è stato in assoluto il film più acclamato dalla stampa per l'intera manifestazione.
Misteri delle giurie, certo, ma anche una soluzione che non può che continuare a buttare benzina sul fuoco a tesi complottiste e nazionaliste (tra l'altro, in queste ore, portate avanti anche dai Cahiers du Cinéma): per esempio sappiamo bene tutti che se quest'anno ci fosse stato anche un giurato italiano le cose sarebbero andate molto diversamente.
È vero, a pensarci, sembra ridicolo che dei giurati (artisti stimati in tutto il mondo) possano cedere ad eventuali pressioni interne o esterne alla giuria per premiare i film del paese in cui si trovano, ma d'altronde non è certo una novità per i festival internazionali come dimostrano le numerose Coppe Volpi (una su tre come scriveva il collega Alberto Cassani meno di un anno fa) assegnate a film italiani negli ultimi 15 anni a Venezia o i premi delle interpretazioni ad attori e attrici tedeschi a Festival di Berlino (dal 2005 al 2009, addirittura uno su due). Si tratta di un qualcosa da condannare sempre e comunque, ma anche di una tendenza che difficilmente potrà mai scomparire se non attraverso cambiamenti radicali e probabilmente irrealizzabili.
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Anche sorvolando sui premi dati ai francesi, comunque, anche il resto del palmarès non ha convinto. Poco da dire su The Assassin e il premio alla regia dato a Hou Hsian-Hsien, se non che in molti speravano addirittura nella Palma d'oro, ma si tratta di un film talmente radicale da non aver mai avuto reali speranze per premi plebiscitari; stesso discorso per l'originalissimo The Lobster, un altro film che ha molto diviso, ma che sembrerebbe aver convinto almeno qualche giurato (forse gli stessi Coen?). Molto più discutibile invece il premio alla sceneggiatura del messicano Chronic (e anche qui il giurato Guillermo del Toro giura che la nazionalità non c'entra nulla) e anche la presenza dell'ottimo Son of Saul come Gran premio della Giuria ma NON per la Camera d'or come miglior esordio. Vero, la giuria del concorso e quella della Camera d'or sono ben distinte, ma davvero ci state dicendo che questo colombiano Land and Shade è migliore del film ungherese, uno dei più amati in assoluto dalla stampa internazionale? E allora perché ce l'avete "nascosto" in una sezione parallela?
"I francesi cantano, gli italiani piangono"
Con questo tweet (francese ovviamente) ieri pomeriggio, mentre eravamo di ritorno in Italia, abbiamo capito che i giochi erano davvero conclusi e quel poco di speranza che ancora avevamo era svanita. Chi ci segue sa che da queste parti non siamo particolarmente patriottici o nazionalisti, anzi quando si tratta di cinema italiano raramente riusciamo ad entusiasmarci. Eppure quest'anno ci siamo trovati ad amare davvero i nostri film presentati a Cannes (anche quello di Garrone, pur con molte riserve) e, anche considerata l'annata poco brillante, davvero speravamo di portare a casa qualche premio, se non addirittura la Palma.
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D'altronde, lo sanno tutti ormai, Nanni Moretti è stato osannato da francesi (e questa non è una novità) e non, mentre Paolo Sorrentino ha diviso di più ma ha comunque avuto tanti applausi e molte recensioni (soprattutto americane) davvero positive. Chiudere questo Cannes 2015 senza nessun premio (anche Roberto Minervini non ha convinto la giuria di Un Certain Regard, altra selezione non esattamente spettacolare) sa certamente di sconfitta perché, è inutile nasconderlo, nel giro di 12 mesi abbiamo avuto Youth - La giovinezza, Il Racconto dei Racconti, Mia madre, Il giovane favoloso ed Anime nere e non è che ci capita ogni anno. Certo, è comunque un buon segnale per il cinema italiano (d'autore) ma è mancata quella spinta che avrebbe potuto rilanciarci definitivamente tra i grandissimi del cinema mondiale. Insomma quella rinascita che tanto viene auspicata da anni non è mai stata così vicina, ma non è stata ancora afferrata.
E ora? E ora si riparte da quanto di buono comunque è stato fatto con la speranza che possa andare meglio d'oltreoceano, visto che la Fox Searchlight punta molto sul film di Sorrentino e molti americani, esperti di Award Season, hanno già notato che Youth potrebbe avere molte chance: un premio quantomeno allo straordinario Michael Caine avrebbe aiutato, ma non sono certo pochi i casi di film ignorati a Cannes e poi grandi protagonisti agli Oscar. Sorrentino però dovrà concorrere nelle sezioni principali e non in quella del film straniero che ha già vinto con La grande bellezza: Youth, come il film di Garrone, è infatti tutto girato in lingua inglese, a quel punto potrebbe essere Moretti a tentare il colpaccio al Dolby Theater.
Ne abbiamo viste di tutti i colori
Un altro motivo per cui sarà ricordata questa edizione di Cannes è il grande disagio che buona parte della stampa ha dovuto subire per vedere i film più attesi: da sempre il festival francese è sinonimo di file lunghissime e massacranti, ma quest'anno veramente si è superato ogni limite, arrivando a costringere centinaia e centinaia di accreditati (tra cui il sottoscritto) ad anche 4 ore di file a vuoto, ovvero senza riuscire ad entrare per ben due volte di seguito alla proiezione di alcuni film (Carol per esempio, ma anche il film di Hirokazu Koreeda).
Si tratta di disagi enormi per chiunque sia al festival per lavorare (e quindi il 90% dei presenti) ed un qualcosa che ha fatto imbufalire davvero tutti, anche coloro che, nella gerarchia classista cannense, possono contare su badge con massima priorità. Quest'anno della guerra dei badge colorati hanno parlato davvero tutti, da The Hollywood Reporter a Le Monde, e siamo certi che ad un festival attento come quello di Cannes queste critiche non passeranno inosservate e che già dall'anno prossimo sarà introdotta qualche novità al riguardo.
Insomma che sia un'annata da dimenticare al più presto a pensarlo oggi saranno probabilmente in molti anche nel Palais du Festival ormai vuoto. Si tratta, però, di un magra consolazione.