Ci voleva il talento di Brad Pitt e di Aaron Taylor-Johnson a risollevare le sorti di un cinema d'azione da grande schermo che, negli ultimi anni, aveva trovato nello streaming (spesso usa-e-getta) la casa ideale. Un caso curioso perché, Bullet Train, diretto da David Leitch e tratto da I Sette Killer dello Shinkansen scritto da Kōtarō Isaka, dietro la sua spessissima coltre action nasconde anche e (forse) tanto altro. Ed è il bello di un intreccio filmico costruito sullo spazio angusto e fintamente statico di un treno che viaggia da Tokyo a Kyoto, sfiorando i 300 chilometri orari, e facendo diverse fermate da appena sessanta secondi. Fermate che per le svolte narrative diventano respiro e ricambio di personaggi che, alternandosi ma tenendo in risalto lo stropicciato Ladybug di Brad Pitt (che non sbaglia una parte), fanno di Bullet Train un film costantemente nuovo, scena dopo scena. O melio dire, pallottola dopo pallottola.
Il destino e una Fiji Water
Prima di raccontarvi perché il film di Leitch non è solo un riuscito esempio di action movie, bisogna considerare la storia, totalmente costruita in base ai folgoranti personaggi che ci capita di incontrare su questo treno sparato ad altissima velocità. Seguiamo Ladybug, sicario decisamente cool incaricato di portare a termine un compito che, condizionale è d'obbligo, prevederebbe il recupero di una valigetta trasportata sul treno in questione. Peccato che, insieme ad un bislacco cappello da pescatore, si porta dietro anche una scia di sfortuna. La missione, dunque, prende una piega inaspettata, e Ladybug finisce per incrociarsi con strambe e pericolose figure salite su quel treno - scopriremo - per un determinato motivo. In questo senso, Bullet Train, che sfrutta per intero la sua enorme potenza visiva, diventa in un primo momento un film sul destino. Un tema importante nella tradizione popolare giapponese, in quanto la leggenda vorrebbe che ogni persona possieda un filo rosso invisibile che lo lega ad un'altra, possibilmente la propria anima gemella.
Qui però ci sono solo un manipolo di sicari dai nomignoli improbabili, e il destino li riunisce per motivi meno nobili. Ma in questa direzione, la stessa su cui viaggia il treno impazzito, ci sono anche Tangerine e Lemon, interpretati da Aaron Taylor-Johnson e Brian Tyree Henry. Uno è bianco, l'altro è nero eppure, per un preciso volere del destino, sono diventati fratelli. Sempre per destino, un distributore automatico farà cadere una bottiglietta di Fiji Water rimasta incastrata, che Lemon porterà sul treno. Un evento all'apparenza inutile e normale (a chi non è mai capitato di inserire una moneta in una macchinetta e vedere il proprio snack bloccato sul vetro?), ma che - sfruttando una sceneggiatura di ferro - diventerà la chiave di (s)volta dell'intero film.
Il cinema di Leitch, tra Hollywood e gli stuntman
Dunque, il destino. Quel destino che si sposa perfettamente con la concezione poetica del treno: quante volte, salendo sul vagone, abbiamo fantasticato di incrociare lo sguardo con quella che potrebbe essere la nostra metà, l'amore da sogno? Sì, forse abbiamo visto troppe volte Prima dell'Alba, eppure da sempre il treno è il mezzo di trasporto più romantico di tutti. Più romantico e, come Bullet Train dimostra, anche quello più cinematografico. David Leitch, quando diresse Charlize Theron in Atomica Bionda nel 2017, dimostrò grande talento visivo e ottima capacità di dirigere grandi star di Hollywood, rendendo ogni ingranaggio fondamentale per il valore assoluto del racconto, che mai viene soppiantato dall'estro visivo. Una visione adrenalinica, eccessiva e assuefatta allo spettacolo, che arriva dal passato da stuntman di Leich (e ha fatto anche la controfigura a Brad Pitt in Fight Club!), nonché influenzato dalle sfumature action di Guy Ritchie e da quelle squisitamente verbose di Steven Soderbergh. Verbose e umoristiche perché, ritrovandoci sul diretto Tokyo - Kyoto, in compagna tra l'altro di un pericolosissimo serpente, l'umorismo non manca di certo, e anzi è dosato per essere funzionale allo script. Insomma, il divertimento in Bullet Train non è ripetitivo, non strafa, non annoia. E poi conferma una regola: i fuoriclasse, come Brad Pitt (ma nel cast ci sono anche Joey King, Logan Lerman, Masi Oka, Zazie Beetz), danno il proprio meglio quando non si prendono sul serio, lasciandosi (anch'essi) trasportare da un'enorme giostra che si adatta alle misure enormi di una sala cinematografica.
Brad Pitt spericolato: ha realizzato da solo il 95% dei suoi stunt di Bullet Train
L'incomunicabilità che viaggia veloce
Ma se Bullett Train rivaluta finalmente i film d'azione, come detto nasconde spunti non da poco. Il destino, le etichette che la società finisce per affibbiarci - Ladybug, nonostante voglia dire coccinella, sembra proprio portare sventura a tutti coloro che lo incontrano -, l'imprevedibilità della vita. Se in Forrest Gump la metafora arrivava dai cioccolatini, in Bullet Train arriva da chi sale (e da chi scende) dal treno. Del resto, il destino è proprio sul percorso che avevi scelto di evitare, e questo permette al film di prendere quelle svolte inaspettate che delineano una cornice in continuo movimento.
Tra i temi, però, c'è anche quello dell'incomunicabilità, che oggi influenza gli aspetti sociali e politici, rendendoci quasi assuefatti al disgusto e alla paura. Fondamentalmente, nessuno dei protagonisti ascolta quello che dice l'altro, nessuno capisce che sono finiti lì per un motivo chiarissimo. Motivo che David Leitch rivela - tra le righe - fin da subito. Ognuno di loro si concentra su sé stesso, e solo alla fine, quando le carte verranno scoperte, quel filo rosso diventa così tanto visibile da stringerli in un nodo da cui è impossibile liberarsi. E noi, insieme a loro, ci ritroviamo a scendere ad un capolinea che riserverà l'ultima sorpresa. Perché grazie a Bullet Train, il cinema d'azione ha avuto la sua meritata rivincita.