La prima cosa che viene in mente guardando Boxer, una delle ultime aggiunte originali al catalogo di Netflix, è come esso sia probabilmente una delle migliori dimostrazioni recenti del fatto che la piattaforma, quando si tratta di ideare le proprie produzioni, prima di qualsiasi altra cosa attenzioni che tono, estetica e format siano in linea con delle caratteristiche appartenenti ad un modello preciso e ormai inderogabile e solo dopo pensi a tutto il resto.
Viene in mente questo ragionamento in primis dal momento che, nonostante stiamo parlando di una pellicola avente lo scopo di raccontare una specifica tipologia di processo migratorio, come quella che ha riguardato gli sportivi polacchi dopo la Seconda Guerra Mondiale, esso sia girato come un biopic revisionista prettamente statunitense, da un regista sloveno che ha avuto modo di saggiare il suolo statunitense e attraverso lo sport più importante per il cinema statunitense.
Mitja Okorn, scomparso dai radar dopo il drammatico (per genere e esito) Life in a Year, presta il suo occhio internazionale per prendere una vicenda privata simbolo di un evento storico preciso e trasfigurarla in un racconto nei fatti più generalizzabile che universale. Una pellicola dalla scrittura tradizionale e dal tono forzatamente quasi sempre ironico che nella sua volontà di divenire spendibile per tutti perde la matrice peculiare che l'ha generata.
Boxer o non boxer? Questo è il dilemma
Boxer è improntato, fondamentalmente, per essere il classico film biografico di un uomo che insegue l'evidentemente mai troppo vituperato Sogno Americano per scoprirne tutti i lati negativi. Che lo faccia attraverso uno sport, in questo caso attraverso la boxe, poco importa. La metafora che questo rappresenta interessa così poco al film da liquidarla con due linee di dialogo, dicendo allo spettatore che "tanto già lo sapete quali significati si porta dietro questo sport, non dobbiamo certo stare qui a ricordarvelo". Per i naviganti più inesperti: "l'importante è avere la forza di rialzarsi". Per approfondire guardate o riguardate Rocky.
Non interessa al punto che verso il finale si va da tutt'altra parte, dando giustamente enfasi a ciò che fin dall'inizio è il vero focus del film, ovvero raccontare la storia di un figlio che vuole riscattare il destino del padre. Il centro è la gestione di un'eredità, che è spirituale, culturale oltre che di lignaggio, e di come essa, per un bambino, possa essere difficoltosa da manipolare. La boxe è la rappresentazione di questo onere e di questo privilegio. Per questo il giovane Jedrzej (Eryk Kulm) vuole diventare pugile come il suo vecchio nonostante vada benissimo a scuola e nonostante l'ultima cosa che il suo vecchio voleva finché era in vita era proprio lui non facesse il pugile. Uno sport che alla fine lo ha tradito e con il quale si è ritrovato a dover tagliare i ponti.
Jedrzej allora non solo diventa campione di Polonia grazie all'aiuto dello zio Czesiek (Eryk Lubos), che allenò anche il padre, ma decide di andare via dal suo Paese di origine e fuggire a Londra, dove affermarsi nel proprio grazie al suo talento, trascinandosi dietro anche Kasia (Adrianna Chlebicka), una ragazza bellissima e intelligentissima (soprattutto intelligentissima) di cui è impossibile non innamorarsi. La vita dall'altra parte della cortina di ferro non è però quello che il ragazzo si potesse immaginare, sarà allora costretto a rivedere i suoi piani, stando attento al fatto che spesso ciò che sogniamo è anche quello che può farci più male.
Sotto il vestito (poco o) niente
Boxer parte da una storia universale, come quella di un racconto famigliare con un nucleo tematico specifico che è quella del riscatto di un rapporto intergenerazionale burrascoso, e poi aggiunge degli elementi che lo rendano più peculiare. Ci mette la classica parabola legata alla trappola di potere e successo, inserisce l'elemento sportivo e poi decide di contestualizzare la storia decidendo di renderla esempio del vero processo migratorio che ha riguardato tanti sportivi polacchi negli anni '40 e '50. Il problema è che il film si presenta come un lavoro che invece ideato con un processo dall'ordine inverso.
Il regista Mitja Okorn mette al servizio del progetto la sua esperienza nel cinema statunitense per trovare un punto d'incontro tra una storia con un presupposto culturale preciso e un linguaggio internazionale, finendo con il ridurre l'elemento nazionale ai baffi del suo protagonista, la barba di suo zio e al fatto che gli attori parlino polacco. Non c'è veramente nient'altro che giustifichi l'aver scomodato il fenomeno storico a monte. Dal registro linguistico, al ritmo, passando per la costruzione degli atti, la scrittura dei dialoghi, la colonna sonora, la recitazione, tutto è mirato a catturare un pubblico il più trasversale possibile. Magari sensibilizzando ad un evento storico, ma certo non raccontandolo.
In conclusione Boxer si può leggere in due modi, dando giudizi diversi. È sicuramente un film godibile nella sua costruzione classica, nel suo tono divertente anche se un po' prevedibile (sicuramente un po' troppo lungo) e nel suo racconto da coming of age e di caduta e rinascita. D'altro canto non è una pellicola a cui interessa parlare veramente dei problemi di quel tipo di immigrati e delle logiche che li hanno riguardati dal loro punto di vista. Un peccato, perché la miscela giusta si poteva invece trovare, dato che i passaggi sullo status del rifugiato sono quelli che danno un vero quid in più alla pellicola.
Conclusioni
Un pezzo importante, ma poco conosciuto della Storia recente polacca arriva su Netflix con Boxer, che vuole raccontare dell'evento migratorio che interessò gli sportivi del Paese, in massa a cercare fortuna dall'altra parte della cortina di ferro. Alla regia ritroviamo lo sloveno Mitja Okorn dopo il suo passaggio in terra USA, incaricato di trovare il giusto equilibrio tra il format internazionale dello streamer e la matrice peculiare da cui nasce il progetto. Un equilibrio che però non trova mai, realizzando infine un film dalla parabola classica, dal buon ritmo, divertente e ricevibile da un pubblico trasversale, ma che poco o nulla ha a che fare con l'evento storico di partenza.
Perché ci piace
- Funziona per tono e ritmo.
- La prima parte è ben pensata.
Cosa non va
- La lunghezza.
- Gli aspetti sulla condizione di un rifugiato troppo superficiali.
- Presupposti poco importanti.