Poche vie che si intersecano tra di loro e che costituiscono un baluardo di resistenza all'interno della città. Bosco grande a Palermo è la testimonianza di un passato che l'omologazione vorrebbe spazzare via, ma che rimare in piedi con fierezza. Il suo re/prigioniero è Sergione, un tatuatore cinquantenne di 260 chilogrammi, che ha vissuto tutta la vita in quel quartiere popolare senza mai andare via. È uno dei punk leggendari della città che ha risposto con la filosofia "live fast, die young" alla cultura borghese e mafiosa degli anni Ottanta. È lui il protagonista del documentario di Giuseppe Schillaci presentato nella sezione Notti veneziane delle Giornate degli Autori.
Palermo e la resistenza contro la standardizzazione
Se Sergione è il protagonista di Bosco Grande, Palermo non è da meno. Sebbene ne vediamo solo una minuscola porzione, il documentario è anche una riflessione sulla città che Schillaci porta avanti fin dal romanzo d'esordio, L'età definitiva, e proseguita con i documentari Apolitics Now - tragicommedia di una campagna elettorale e L'ombra del padrino. Oggi Palermo, così come tante altre realtà metropolitane, è al centro di una trasformazione che rischia di stravolgerla."Questi fenomeni di incrocio tra la gentrificazione e il turismo di massa, hanno cambiato il volto delle città, delle grandi capitali del Mediterraneo. È un turismo mordi e fuggi. Tutti i posti che restavano ancora autentici, diventano un po' uguali. È un fenomeno globale che non riguarda solo l'Italia", commenta il regista.
"Ma in realtà basta scavare", suggerisce Schillaci. "Ne è dimostrazione anche il mio film che, di fatto, si muove in un quartiere invisibile che nessuno conosce. Quattro strade in cui però si vive ancora in maniera molto umana. Le relazioni sono forti, come erano prima. Era un po' anche il fascino di queste città che ti accolgono e in cui il lato umano è molto importante. Bisogna andare nelle periferie, nei margini. Il nostro patrimonio non sono soltanto i palazzi, l'architettura, l'antichità o i monumenti - che sono sicuramente anche quelli un patrimonio - ma il fattore umano. Le persone in certe città, soprattutto del sud, resistono a questa massificazione totale, a questo appiattimento, standardizzazione dei gusti, dei valori, dello stare al mondo. In Bosco Grande l'ho ritrovato in questo quartiere".
La genesi di Bosco Grande
Quello di Sergione potrebbe essere definito un personaggio bigger than life. Una figura che non può lasciare indifferenti. Lo sa bene Giuseppe Schillaci che, dopo il loro incontro, ha finito per cambiare la struttura narrativa del suo documentario."All'inizio volevo raccontare ciò che era rimasto della Palermo punk degli anni Ottanta. E lo volevo fare a partire dalle foto del fotografo Fabio Sgroi. Guadando quegli scatti in bianco e nero mi chiedevo che fine avessero fatto quelle persone. Mi ha raccontato che quasi tutti erano andati via da Palermo, mentre chi era rimasto, per esempio Sergio, era sempre lì dove lo aveva lasciato trent'anni prima. Gli ho chiesto di portarmi da lui ed è stato subito amore a prima vista. Ci siamo in qualche modo riconosciuti, mi ha cominciato a parlare e tutti e due abbiamo capito che il film sarebbe stato su di lui che rappresenta il punk a Palermo e anche una certa Italia".
"La relazione è andata avanti anche su WhatsApp, visto che io vivo a Parigi da anni, attraverso messaggi vocali che in parte ho messo anche nel film", ricorda il regista."Però già da subito il tuo atteggiamento - lo stesso che riserva quasi a tutti quelli che lo vanno a trovare - è stato di estrema accoglienza, generosità, apertura totale, trasparenza. Si mostra per quello che è. Anzi quasi ostenta questo corpo abnorme che potrebbe sembrare mostruoso ma che, in realtà, imparando a conoscerlo e a guardarlo con una certa amorevolezza è un corpo che ha una sua bellezza".
Il lavoro sul materiale d'archivio
La vita del protagonista e i suoi racconti di una Palermo passata, intrecciati a quelli intimi della sua vita, sono intervallati da immagini e filmati dell'epoca. Testimonianze preziose che arricchiscono visivamente il racconto."Le atmosfere un po' cupe, in maniera disperata e vitalistica, le avevo esplorate nel primo mio lavoro _The Cambodian Room - situazioni con Antoine D'Agata", ricorda il regista. "Negli scatti di Fabio Sgroi ho ritrovato questa disperata bellezza, quest'atmosfera nera che sembra quasi senza speranza dove, invece, si vede una luce che è proprio della poesia. E poi la costruzione a livello di montaggio, il lavoro sugliarchivi di famiglia e fan footage è stato molto complesso però ha dato bellissime soddisfazioni". "Abbiamo lavorato tra i materiali e le riprese svolte nell'arco di cinque anni con camere diverse. Il montatore Felice D'Agostino ha fatto un grandissimo lavoro", prosegue Schillaci. "Siamo andati all'osso della narrazione e delle emozioni, perché di fatto Sergio ce lo consentiva con la sua potenza drammaturgica. Abbiamo fatto cadere tutte le cose un po' più sofisticate di montaggio e ci siamo fatti guidare. Sergio sapeva dove doveva andare lui e il nostro film. Di fatto lo abbiamo costruito insieme".
Una chiave tragicomica (e punk)
Presentato alle Giornate degli Autori, Bosco Grande avrà quindi modo di interfacciarsi con un pubblico eterogeneo e variegato. Cosa spera che gli spettatori porteranno via con sé dalla visione? "Questa grande capacità di amare e di ridere delle proprie sofferenze anche nelle situazioni più drammatiche come quella di Sergio. Questa capacità che avevano gli italiani e che hanno ancora di riuscire a ridere delle proprie disgrazie. La chiave tragicomica della cultura del cinema italiano in cui mi ritrovo pienamente e che Sergio incarna in maniera poetica e con grazia nonostante i suoi quasi 300 kg".
Per Sergio il punk è una risposta alla Sicilia delle morti per mafia, della violenza, della borghesia. Per reagire a una città devastata."I punk sono un po' dei nuovi futuristi. La grande differenza forse è che ha questa chiave nichilista forte del "no future". Ma la cosa che mi interessava molto in Sergio era anche questo suo immobilismo sia spaziale - legato a casa sua, alla sua stanza, alla sua poltrona - che temporale", chiosa il regista. "Lui è come se fosse ancora quel ragazzino di 12/13 anni. Ha cercato di restare tutta la vita di restarlo. Da autore considero poetica una persona che guarda così alla vita. È un atto forte su cui ognuno poi fa le sue considerazioni morali ed etiche. Ma a livello estetico/esistenziale è bellissimo. È una lotta persa contro il tempo".