Il suo film parla del flusso di diamanti illegali provenienti da zone disastrate dalla guerra, i cui proventi proprio quei terribili conflitti vanno ad alimentare. A Edward Zwick non ha fatto per nulla piacere che l'associazione internazionale dei produttori di diamanti abbia fatto la proposta di devolvere in beneficenza 10 mila dollari per ogni star che calcherà il red carpet della notte degli Oscar indossando un qualche gioiello munito della suddetta pietra preziosa.
"Non bastano questi contentini", fa sapere Zwick, che sull'argomento ha svolto un lungo lavoro di ricerca prima di girare il film, "bisogna che le industrie di diamanti, che ancora oggi negano qualsiasi implicazione con le guerre civili americane, riconoscano le proprie responsabilità e facciano luce su quel che è successo in Africa durante gli anni '90".
Sulla medesima falsariga, dell'impegno sociale e del desiderio di far luce su un lato oscuro della storia recente, si schiera tutto il cast, presente a Roma per il lancio italiano del film Blood diamond.
"Se in passato ho acquistato diamanti, d'ora in poi farò assolutamente attenzione alla provenienza della pietra" dice Leonardo DiCaprio, "la storia era infatti di per sé molto affascinante, ma ad una seconda lettura mi sono accorto che dietro quel testo c'era qualcosa di più che un semplice buon film. Il mio personaggio poi era veramente intrigante, un criminale opportunista, che tenta disperatamente di dissociarsi dal proprio continente, non riuscendoci mai del tutto".
Incalzato più volte sulla candidatura come miglior attore protagonista ricevuta dall'Academy proprio per questo film, il bel Leo divaga: "Non mi aspettavo né mi aspetto nulla di particolare, perché so di non aver nessun controllo su quel che succederà quella sera".
La candidatura di DiCaprio arriva con un film tra i più violenti a cui lui abbia partecipato. "La storia della Sierra Leone - spiega Zwick - è stata molto più violenta di quel che io non abbia raccontato. Lì sono successe certe cose che a riprodurle la gente sarebbe uscita inorridita dalla sala. D'altra parte una raffigurazione non edulcorata della violenza è utile, in quanto non fine a sé stessa, perché informa in qualche modo il pubblico di quel che è avvenuto o sta avvenendo in quelle zone".
Zone nelle quali Djimon Hounsou è nato, cosa che fa assumere alla partecipazione al film un significato ancora più profondo: "Ho lasciato l'Africa da bambino, e quando stavo lì ho visto moltissime delle brutture che il film racconta. Questa è la storia più pertinente sull'argomento che Hollywood abbia mai tirato fuori, anche se penso sia un caso che coincida con l'uscita e la candidatura all'Oscar di un altro film sul tema (L'ultimo re di Scozia n.d.r.). Gli studios sono pieni di progetti non avviati, è capitato che venissero realizzati insieme, ma l'attenzione globale del cinema è ancora lontana da queste problematiche".
Il regista comunque tende a sottolineare come "girando il film sul posto, abbiamo portato al mercato africano dai 30 ai 50 milioni di dollari cash, che sono un ottimo motore per un'economia così disastrata".
Particolare il personaggio di Jennifer Connelly, unica occidentale tra i protagonisti, e per di più di una "razza" non sempre ben vista come quella dei giornalisti. "Ho interpretato un personaggio che è la prima volta che incontro: è una giornalista molto concreta, ma anche idealista, sognatrice. Ho parlato a lungo con due amiche giornaliste che sono state nel '99 a Freetown, e che mi dicevano che lo spirito e la caratterizzazione del personaggio era quella giusta".