"Ricordi cosa ti ho detto?" "Che un giorno avrei dovuto difendermi da solo." "Quel giorno è oggi, Fin."
La provincia suburbana degli Stati Uniti, con le sue piccole comunità circoscritte, le lunghe file di villette e quell'atmosfera di apparente serenità. Personaggi che si sono appena affacciati sull'adolescenza e devono far fronte a violenze e soprusi quotidiani, tanto a scuola quanto fra le pareti domestiche. Una minaccia senza nome che colpisce all'improvviso, lasciando dietro di sé un nugolo di palloncini. Basta considerare gli elementi centrali della trama di Black Phone per essere ricondotti seduta stante all'immaginario legato al più importante romanzo horror dei nostri tempi, It di Stephen King, e più in generale ad alcuni temi-chiave della sterminata produzione dello scrittore di Portland, incluse le innumerevoli declinazioni di un Male di natura metafisica.
Il richiamo a Stephen King è però tutt'altro che casuale, a partire dalla fonte letteraria alla base del nuovo film di Scott Derrickson: il racconto eponimo pubblicato nel 2004 da Joe Hill, pseudonimo di Joseph Hillström King, ovvero il figlio d'arte di Stephen King (The Black Phone è stato inserito nel 2005 nella sua raccolta Ghosts, edita in Italia nel 2009 da Sperling & Kupfer). Se dunque l'influenza del "re dell'horror" appare evidente nell'opera di Joe Hill, il compito di Scott Derrickson e del suo co-sceneggiatore di fiducia, C. Robert Cargill, è stato quello di rielaborare tale influenza all'interno di un lungometraggio che non si facesse schiacciare dal peso del suddetto immaginario. La sorpresa è che Black Phone, approdato a fine giugno nei cinema internazionali, da un lato procede in direzione opposta rispetto a titoli alla Stranger Things (in cui non manca una componente più ironica e scanzonata), dall'altro dimostra di tenere testa a tutte le recenti trasposizioni di libri della famiglia King.
Da Derry a Denver: l'orrore dell'America suburbana
Il rimando più immediato, come si diceva in apertura, è a It, magnum opus kinghiano del 1986, portato al cinema da Andy Muschietti con un dittico uscito fra il 2017 e il 2019, inaugurato da una notevole prima metà ma chiuso da un Capitolo 2 che aveva il sapore dell'occasione parzialmente sprecata. E Black Phone, ambientato in un'area residenziale della periferia di Denver, presenta numerose analogie con It. Per cominciare l'ambientazione nel passato, nello specifico il 1978, sottolineata dai toni più sbiaditi della fotografia di Brett Jutkiewicz, in contrasto con i cromatismi sgargianti degli anni Ottanta di Stranger Things: non per ricercare l'effetto-nostalgia, che non sembra essere in alcun modo fra gli intenti di Derrickson e Cargill, quanto piuttosto per evocare una "età dell'innocenza" priva di tecnologia e cellulari, ma che per il resto potrebbe essere tranquillamente assimilata alla contemporaneità.
I due protagonisti di Black Phone sono una coppia di fratelli, Finney (Mason Thames) e Gwen (Madeleine McGraw), orfani di madre e accomunati dalla rassegnata sopportazione degli accessi d'ira del padre Terrence (Jeremy Davies), uomo violento e alcolizzato. Finney, la cui timidezza lo rende il frequente bersaglio dei bulli della sua scuola, aderisce appieno all'archetipo dei "perdenti" al cuore del capolavoro di Stephen King: è un ragazzo inconsapevole del proprio potenziale e che sembra accettare passivamente il ruolo di 'vittima', sia con i coetanei, sia al cospetto del padre. E in fondo, il serial killer soprannominato il Rapace (in originale Grabber) è innanzitutto una proiezione 'mostruosa' della figura paterna: a tratti irascibile o mellifluo, determinato a esercitare la sua incontestabile autorità su Finney e pronto a castigare le sue trasgressioni, mentre stringe in mano quella cinta che può trasformarsi in uno strumento punitivo.
Black Phone, la recensione: pronto, chi uccide?
Il mostro e gli outsider: imparare a sopravvivere
Il Rapace, a differenza di Pennywise, non è un'entità soprannaturale, ma la scelta di privarlo di un preciso background ne fa comunque un emblema di un orrore misterioso e impenetrabile. Al pari di Pennywise, il Rapace si materializza quasi dal nulla, con le sembianze semi-giocose di un animatore di feste per bambini (It assumeva l'aspetto di un clown, il Rapace quello di un prestigiatore), e pure per lui i palloncini fungono da 'firma' da lasciare sul luogo del delitto. Fra i maggiori meriti del film di Derrickson va ascritto non a caso il suo antagonista, a cui dà voce e sguardo un angosciante Ethan Hawke, abilmente nascosto dietro una maschera intercambiabile che, di volta in volta, conferisce al 'mostro' una diversa connotazione. Se il suo gioco fra il gatto e il topo con il protagonista riecheggia appunto Pennywise, a contraddistinguere il Rapace è però anche una fragilità patologica più vicina a quella di serial killer quali il Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti, che costituisce un modello per Black Phone almeno quanto It.
Finney, dunque, è l'outsider costretto a scendere nelle tenebre - in questo caso, letteralmente - per mettersi alla prova e scoprire dentro di sé la forza per riemergere, secondo il percorso canonico del racconto di formazione. Sua sorella Gwen, la deuteragonista, segue invece la tradizione del Danny Torrance di Shining e di altri piccoli eroi kinghiani, dotati di poteri paranormali che si riveleranno di utilità indispensabile. Una nel territorio dei sogni, l'altro nelle profondità dell'abisso, sia Gwen che Finney dovranno lottare per la sopravvivenza e, al contempo, imparare a sostenere il peso della realtà. Ma d'altra parte, molte delle più grandi opere horror (compresi i romanzi di King) ci parlano proprio di questo: trovare il coraggio di affrontare il Male significa in primo luogo riconoscerlo nei diversi ostacoli dell'esistenza di tutti i giorni e sapere come superarlo... o quantomeno, essere in grado di sopravvivergli.
It: perché il capolavoro di Stephen King è uno dei migliori romanzi della nostra epoca