Sto lì tutto rigido, ma dopo che ho iniziato, allora dimentico qualunque cosa. E... è come se sparissi. Come se sparissi. Cioè, sento che tutto il corpo cambia, ed è come se dentro avessi un fuoco... come se volassi. Sono un uccello. Sono elettricità.
Quando, al termine di uno dei momenti clou del film, Billy Elliot spiega alla commissione della Royal Ballet School cosa significhi per lui ballare, la scena in questione ci appare al tempo stesso convenzionale e profondamente sincera. La danza come mezzo di scoperta di se stessi, di evasione dalla realtà, di accesso a una nuova dimensione dell'io è il punto fermo di un intero filone cinematografico: "I am rhythm now", cantava Irene Cara nel ritornello del brano che accompagnava l'esibizione di Jennifer Beals in Flashdance; "Sono elettricità", dichiara orgoglioso il piccolo Billy, ed Electricity è infatti il titolo di una delle canzoni scritte da Elton John per il musical tratto dalla pellicola di Stephen Daldry.
Billy Elliot, in fondo, è questo: un racconto di formazione e di riscatto attraverso l'arte, costruito secondo una formula paradigmatica alla quale si attiene passo passo; ma è anche un film da cui trapela un senso di genuina autenticità, e pertanto in grado di risultare molto più coinvolgente rispetto a dozzine di opere che potrebbero sembrare più o meno simili. Sono trascorsi vent'anni dal suo debutto nelle sale britanniche, il 29 settembre 2000, e in questi due decenni Billy Elliot ha mantenuto un posto di rilievo nel cuore del pubblico, favorito pure dalla fortuna dell'omonimo musical realizzato da Lee Hall ed Elton John nel 2005. Ma perché da vent'anni continuiamo ad amare così tanto Billy Elliot?
La parabola di un piccolo ballerino
Lee Hall, che aveva concepito Billy Elliot come uno spettacolo per il palcoscenico, si rivolge a un apprezzato regista teatrale, Stephen Daldry, convincendolo a portarlo sul grande schermo. In un universo parallelo il film sarebbe stato conosciuto con un titolo molto più generico, Dancer, con il quale nel maggio del 2000 viene proiettato alla Quinzaine des Réalizateurs del Festival di Cannes. Ma il caso vuole che il Festival di quell'anno sancisca il trionfo di Dancer in the Dark: l'angoscioso musical di Lars von Trier, premiato con la Palma d'Oro, diventa così una delle pellicole più discusse del 2000, e per evitare fastidiose omonimie la produzione decide di rititolare Dancer in base al nome del protagonista, un ragazzo di undici anni che vive a Everington, fittizia cittadina della Contea di Durham, nel Nord-Est dell'Inghilterra.
Billy Elliot, che nell'autunno del 2000 sbarca prima in Gran Bretagna e due settimane più tardi negli Stati Uniti, si rivela un immediato successo: sull'onda di uno strepitoso passaparola incassa oltre cento milioni di dollari, con venti milioni di biglietti venduti in tutto il mondo, riceve tre nomination agli Oscar e in patria, dove assume le proporzioni di un vero e proprio fenomeno, si aggiudica tre BAFTA Award (miglior film britannico, miglior attore per Jamie Bell e miglior attrice supporter per Julie Walters). La prova che non si tratta di un semplice crowdpleaser, ma di un'opera che si attesta come un nuovo modello di riferimento all'interno del filone d'appartenenza e che, contrariamente a quasi tutti gli altri film sulla danza, fa leva su un sottotesto politico che nel musical verrà reso in maniera ancora più esplicita.
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L'inverno del nostro scontento nell'Inghilterra di Margaret Thatcher
Pur narrando una vicenda di carattere universale, Billy Elliot è ambientato fra il 1984 e il 1985, in una fase ben precisa della storia britannica e soprattutto in uno specifico contesto sociale: quello della provincia dell'Inghilterra settentrionale e delle comunità proletarie sorte attorno all'industria mineraria. Nel marzo 1984, di fronte alla prospettiva della chiusura di numerosi giacimenti di carbone e al licenziamento di ventimila persone, i sindacati dei minatori proclamano uno dei più massicci scioperi mai avvenuti in Gran Bretagna: è l'inizio di un serrato braccio di ferro fra la working class e il Governo conservatore di Margaret Thatcher, uno scontro segnato da manifestazioni, picchetti e dalla dura repressione da parte delle forze dell'ordine. Il risultato sarà uno degli strappi più dolorosi nel tessuto sociale del Regno Unito e una delle pagine più drammatiche del thatcherismo.
In Billy Elliot c'è tutto questo, e non si tratta di un semplice sfondo: Billy, interpretato dall'esordiente Jamie Bell, è immerso nell'ambiente operaio di Everington, una città inventata ma che somiglia a un'infinità di piccoli centri situati in quell'area dell'Inghilterra; suo padre Jackie (Gary Lewis), rimasto vedovo a occuparsi di una famiglia di quattro persone (fra cui la nonna di Billy, malata di Alzheimer), è uno dei capofila della protesta dei minatori, affiancato dal primogenito Tony (Jamie Draven). La storia di Billy è contraddistinta da una precarietà finanziaria che si respira ovunque: nell'angoscia impressa negli sguardi dei suoi parenti e di molti suoi concittadini; nella consapevolezza di tutto ciò che lui e la sua famiglia non possono permettersi; nei vecchi mobili adoperati come mezzi alternativi di riscaldamento durante l'inverno più freddo di sempre.
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"I was dancing when I was twelve"
In una situazione del genere, la danza offrirà a Billy la via verso un'inattesa felicità. Da quando, nell'incipit, la voce di Marc Bolan scivola sulle note sognanti di Cosmic Dancer, la musica apre a Billy le porte della conoscenza su un nuovo linguaggio: un linguaggio 'fisico' che gli consente di esprimere tutto ciò che prova, dall'entusiasmo alla gioia alla rabbia. Nel corso del film, dopo Cosmic Dancer, risuonano altre cinque canzoni dei T. Rex, fra cui classici quali Get It On e Children of the Revolution; mentre è l'inno per antonomasia del punk britannico, London Calling dei Clash, a scandire gli scontri fra gli operai di Everington e la polizia, con la voce ruggente di Joe Strummer a sottolineare la frustrazione e la collera di una classe sociale che si sente privata della speranza di garantire un futuro a sé e alla generazione a venire.
È vero, per gran parte del film Jackie Elliot assume la funzione di antagonista: un uomo di mentalità chiusa e bigotta, incapace di accettare l'idea che suo figlio possa appassionarsi alla danza e pronto a scontrarsi furiosamente con Sandra Wilkinson, la grintosa insegnante di ballo incarnata da una magnifica Julie Walters. Ma la figura di Jackie va ben al di là dello stereotipo del padre-padrone; è un quarantenne che non ha mai varcato i confini della sua città-natale ("Perché dovevo andare a Londra? Non ci sono miniere a Londra", dichiara con candida ingenuità), ma che per amore di Billy - e per permettergli di coltivare il suo talento in una scuola di ballo a Londra - arriverà a sacrificare quanto ha di più caro: la propria dignità di lavoratore. E la scena in cui, davanti allo sgomento e alle lacrime di Tony, rinuncia allo sciopero per tornare in fabbrica è non a caso, nella sua semplicità scevra da retorica, uno dei momenti più commoventi visti al cinema da vent'anni a questa parte.