Cosa fareste se, dopo un tentativo di suicidio riuscito per puro errore, vi fosse offerta la possibilità di tornare a vivere per una settimana sotto altre sembianze? La domanda non è poi così scontata e comporta una serie di risposte tra cui quella considerata da Sergio Rubini, nuovamente nelle vesti di regista dopo L'uomo nero. Così, affidandosi a una visione insolita del reale e dell'irreale, il cineasta pugliese prova a raccontare con tono leggero i misteri che si nascondono nelle caratteristiche più segrete dell'uomo con Mi rifaccio vivo. Per mettere in scena questo dialogo si è servito di due interpreti profondamente diversi, Emilio Solfrizzi e Lillo, ai quali ha chiesto di confrontarsi in un continuo gioco di specchi in cui i segreti dell'animo umano vengono messi a nudo. Protagonista della vicenda è l'imprenditore Biagio Bianchetti che, dopo essersi indebitato pur di concorrere con il perfetto e sempre vincente Ottone Di Valerio (Neri Marcorè), decide di togliersi la vita. Ma anche nell'aldilà sembra non esserci pace per lui. Anzi, per scampare a un inquietante "declassamento", Biagio viene mandato nuovamente tra i vivi. Lo scopo è di riscattare la qualità delle sue azioni e di liberarsi dal quel rancore che lo ha portato alla rovina. Una possibilità che, però, l'uomo afferra utilizzando il corpo del geniale e salutista Dennis Rufino, guru della finanza con la passione per il Giappone, per cercare una vendetta troppo attesa e che lo porterà verso un finale inaspettato. Il film verrà distribuito da 01 Distribution dal 9 maggio.
Signor Rubini, come nasce questa commedia onirica abbastanza insolita per il suo percorso cinematografico? Sergio Rubini: Il mio film precedente era sul rancore e alla fine mi sono portato dentro il desiderio di sanare quel sentimento fastidioso. Quindi, Mi rifaccio vivo si tratta di una storia su post rancore e su come poterlo guarire. Si parte, però, da un assunto fondamentale, ossia che l'erba del vicino ci sembra sempre più verde, soprattutto perché non abitiamo nella sua realtà quotidiana. Volevo raccontare come spesso lo sguardo sugli altri è dettato dalla distanza con cui li guardiamo, potendoli giudicare dopo averli conosciuti veramente.
Cosa avete pensato quando avete letto la sceneggiatura? Lillo: L'ho amata moltissima perché sono un appassionato del cinema surreale. Si tratta di storie che in Italia tutti hanno timore di affrontare, forse perché certi temi sembrano meno credibili. Ma la magia del cinema risiede proprio nella capacità di rendere possibile anche l'impossibile. Quindi non mi è sembrato vero di trovarmi di fronte ad una sceneggiatura con queste caratteristiche. L'altro elemento positivo è stato lavorare con un regista che è anche un attore. Il che vuol dire che quando costruisci una scena con lui lo fai sempre in modo fortemente attoriale.Emilio Solfrizzi: Non è la prima volta che lavoro con Sergio, visto che insieme abbiamo fatto La Terra, film straordinario costruito al sud con un cast strepitoso. In quel momento ho capito che mi trovavo di fronte ad un regista molto esigente che ha bene in testa ciò che vuole, chiedendolo fino a quando non la ottiene. Per quanto riguarda Mi rifaccio vivo, però, non ho letto immediatamente la sceneggiatura. Neri Marcorè ed io siamo stati convocati da Sergio a casa sua, dove è stato capace di raccontarci un'idea, dimostrando tutte le sue capacità di affabulatore.
Lillo, il cinema sembra essersi accorto della possibilità di sfruttare il suo talento in coppia con Greg o da solo. Si sente più a suo agio davanti alla camera da presa o continua preferire il microfono di una radio? Lillo: Io sono stato sempre un grande appassionato di cinema. Sarà per questo che, in tutti questi anni, ho avuto nei confronti del mezzo quasi un timore reverenziale. Infondo, è come trovarsi di fronte all'unica donna che ami veramente e non riuscire a esprimere perfettamente i propri sentimenti. Adesso, però, credo di aver preso la giusta misura.
De Niro dice che un attore si sente più protetto se lavora con un collega. In virtù di questo, come si relaziona con i suoi interpreti sul set? Sergio Rubini: Quando girai Tutto l'amore che c'è, scelsi un cast in maggioranza non professionista. In quell'occasione ho imparato che per relazionarsi con gli attori bisogna partire dalla persona. Quindi, non bisogna pretendere di far cantare un interprete come se fosse uno strumento tecnico, ma bisogna sempre considerare che sono fatti di pensieri e affetti. Infondo, il cinema ci offre la grande opportunità di incontrare gente meravigliosamente complessa e di mischiarci tutti.Mi rifaccio vivo sembra collegato a un'altra sua pellicola, L'anima gemella, in cui grazie a Violante Placido e Valentina Cervi ha iniziato proprio a giocare con l'idea del doppio.. Sergio Rubini: E' chiaro che il tema del doppio m'interessa particolarmente. Credo di averlo scoperto da ragazzino nei classici della letteratura ottocentesca come Il sosia. Da quel momento la teoria mi ha affascinato. Per spiegare meglio le motivazioni vorrei raccontare un aneddoto riferito a Sigmund Freud che, durante un viaggio in treno, smarrisce la strada verso il suo vagone e, entrando in uno scompartimento, sviene dalla paura alla vista di un vecchio stanco, dagli occhi rossi. Una volta ripresosi, però, Freud comprende di aver visto solo l'immagine di se stesso riflessa nello specchio. Tutto questo per dire che lo spettacolo più spaventoso per ogni uomo è la visione della parte più intima e sconosciuta di sé. In realtà noi non siamo mai come appariamo, quindi la realtà è una mistificazione.
Cosa significa lavorare con un amico e collega, vedendone nel tempo le varie evoluzioni artistiche? Emilio Solfrizzi: Indubbiamente è interessante. Il tempo passa e, se si è fortunati, ci si ritrova cresciuti e maturati. Per quanto riguarda Sergio ho sempre amato il suo lavoro. Con La terra abbiamo cominciato a conoscerci e oggi siamo stati in grado di fare un lavoro più intenso. Mi ha guardato con occhi diversi e si è sentito libero di sottopormi anche a delle piccole sfide. Posso dire che il nostro è stato un incontro proficuo, umanamente e professionalmente parlando.Lillo, che tipo di sforzo interpretativo richiede lavorare per Rubini? Lillo: Ho trovato una rilassatezza che non sentivo da tempo. In questi anni con Greg ho sempre lavorato su dei nostri testi con la paura di confrontarsi con del materiale sconosciuto. Ad esempio, anche su Colpi di fulmine siamo intervenuti in fase di scrittura per rendere il tutto più adattabile al nostro stile. Questa volta, invece, mi sono affidato completamente a Sergio e mi sono rilassato senza alcun problema. Era chiaro che lui, più di ogni altro, aveva a cuore il destino di questo progetto e non avrebbe mai fatto nulla per metterlo in pericolo.