Sergio Rubini è figlio naturale del territorio pugliese.Questa paternità la porta con se da sempre, da quando, dopo aver lasciato Grumo Appula, ha raggiunto l'Accademia Silvio D'Amico a Roma e, con essa, un cinema che ha vissuto profondamente delle suggestioni e delle tradizioni della sua terra d'origine. Parliamo di film come Tutto l'amore che c'è, L'anima gemella e La terra, grazie ai quali si è sperimentato e definito anche come regista. Ed è proprio grazie alla sua esperienza dietro la macchina da presa che Rubini torna a Bari. Ma, prima di presentare in esclusiva al festival il suo ultimo film Mi rifaccio vivo, accetta di salire sul palcoscenico del Teatro Petruzzelli per una Master Class d'eccezione in cui raccontare le tappe di una carriera artistica sicuramente fuori dal normale.
Signor Rubini, lei, appena diciottenne, capisce che la recitazione è la sua vocazione e decide di andare a Roma per entrare all'Accademia Silvio D' Amico. Come e quando affiora questa necessita artistica e come comincia a metterla a fuoco? Sergio Rubini: A dire il vero volevo diventare tastierista in un gruppo rock, ma non ero particolarmente dotato. Anzi un giorno, arrivando tardi alle prove, ho scoperto addirittura di essere stato sostituito. L'incontro con il teatro, invece, lo devo a mio padre che recitava in un piccolo gruppo filodrammatico. A quel tempo, praticamente ragazzino, vedevo la cosa come un'attività da vecchi parrucconi. Solo per farlo contento ho preso parte alla rappresentazione di Natale in casa Cupiello ed è stato in quell'occasione che tutto è cambiato. In particolare rimasi colpito dalla corrispondenza del pubblico e dalla possibilità dell'attore di determinare il ritmo dell'attenzione. Cosi, messa definitivamente da parte la tastiera, sono andato a Roma per entrare all'accademia D'Amico e, dopo solo due anni di corso, ho cominciato a lavorare. Per me la scuola è stata fondamentale, visto che mi ha dato un ruolo. Il mestiere di attore è completamente inconsistente. Si tratta di un lavoro che esiste solo nel momento in cui si inizia a farlo ed ha bisogno di blasoni e riconoscimenti. Inoltre, in quegli anni, l'accento del sud faceva parte solo della commedia e i nostri personaggi erano dei caratteristi che dovevano generare la risata più grassa. Per questo motivo, ritrovarmi in una struttura capace di donarti non solo l'imprinting della fonetica, ma anche un profondo cambiamento culturale è stata un'esperienza fondamentale. Poi, ho capito che c'era anche un cambiamento profondo per cui ancora non ero pronto. Da quel momento ho iniziato un lavoro per disimparare tutto quello che avevo appreso.
Verso la fine degli anni Ottanta ha deciso di fare il regista dirigendo La stazione. Perché questo cambiamento? Sergio Rubini: Per me ha deciso Domenico Procacci. Ci eravamo conosciuti sul set del Il grande Blek di Giuseppe Piccioni in cui serpeggiava lo stesso identico entusiasmo che avevo sentito lavorando con Fellini in Intervista. A quel punto scoprii che nel cinema non esistevano gerarchie e differenze di età, ma solo l'entusiasmo. In virtù di tutto questo e della nostra amicizia, Domenico una volta finito di girare, venne a vedermi a teatro in cui recitavo proprio ne La stazione. Mi propose di portare lo spettacolo al cinema e di mettermi dietro la macchina da presa. L'idea mi ha immediatamente spaventato perché mi sentivo quasi un usurpare, un imbucato semplicemente perché non avevo studiato da regista. In realtà avevo già ventinove anni con alcuni film alle spalle, di sicuro sapevo cosa andavo a fare.Lei ha citato Federico Fellini, può condividere con noi il ricordo del vostro primo incontro? Sergio Rubini: Il mio primo incontro con Federico è avvenuto sul grande schermo. Io, amante dei spaghetti western, vedendo Il Casanova di Federico Fellini ho capito che il cinema poteva spingere il pubblico verso la formazione di un'opinione, nobilitandolo con il dibattito. Dopo alcuni anni, anche se non molti, le nostre strade si sono incrociate nel suo studio al teatro cinque di Cinecittà per i provini de E la nave va. Ero molto giovane, avevo ventidue anni, e non compresi pienamente l'importanza di quel momento. Lui mi disse che non c'erano parti disponibili per me ma, andando via, dichiarò che un giorno avremmo lavorato insieme. Dopo quel film, Fellini girò Ginger e Fred e poi Intervista. E per quest'ultimo ho ricevuto direttamente una chiamata. Lui si era ricordato di me e di quello che mi aveva detto. In questo modo, con una dichiarazione quasi profetica, Federico è entrato come un mago nelle mia vita. A parte tutto, però, credo che se non se ne fosse andato, oggi l'Italia sarebbe stata diversa, Berlusconi non avrebbe avuto grande spazio e il cinema sarebbe stato migliore evitando tanti brutti film.
Nonostante la sua formazione teatrale e l'essere stato protagonista di un certo cinema d'autore, lei non ha mai disdegnato di partecipare a delle commedie. Com'è il suo rapporto con la comicità? Sergio Rubini: Ritengo che nel comico possono passare molti argomenti e toccare diverse sfumature. Anche il mio ultimo film, Mi rifaccio vivo, è una commedia e non l'ho fatto con il senso di colpa dell'autore che, dopo tanto drammatico, deve raccontare per forza una storia più leggera. Come attore mi piace moltissimo. Certo, dobbiamo considerare una differenza tra la comicità gratificante, ossia quella che riesce a far ridere facendo sentire il pubblico intelligente, e quella che lo mortifica considerandolo un deficiente. E, con tutta onestà, quest'ultima non mi piace.Un altro nome importante nella sua carriera è stato Gabriele Salvatores con il quale ha realizzato Nirvana, Denti e Amnesia.. Sergio Rubini: Gabriele ha la grande capacità di accogliere e questo è un elemento importante per il mestiere del regista. Considerate che l'attore recita esclusivamente per l'uomo che lo dirige. Se questo ti guarda in modo partecipe come un prolungamento della sua stessa volontà, il risultato è garantito. Ecco, Gabriele è in grado di fare tutto questo e di costruire il gruppo relazionando i suoi attori. Devo confessare che mi sarebbe piaciuto fare anche i film del suo primo periodo. Sono orgoglioso si essere stato il Joystick di Nirvana, ma avrei voluto essere anche dentro Mediterraneo.
Quest'anno il festival di Bari, oltre alle figure di Alberto Sordi e Federico Fellini, dedica un ricordo anche all'incredibile Mariangela Melato, scomparsa da poco. Com'è stato dirigere un'attrice come lei nel film L'amore ritorna? Sergio Rubini: io ho debuttato con Mariangela. Avevo 21 anni e il film era Figlio mio, infinitamente caro.... Potrei parlare del talento incredibile della Melato, ma di lei vorrei ricordare soprattutto la naturale nobiltà e la disinvoltura capace di trasformare la recitazione in gioco. Costantemente concentrata sugli altri, era una donna capace di grande umanità e disponibilità. Quando dopo molti anni abbiamo scritto L'amore ritorna, ho pensato immediatamente a lei e mi ha dato anche una grande mano per la realizzazione. A questo punto, però, mi chiedo per quale motivo, negli ultimi tempi, il cinema sembrava averla dimenticata e come mai, alla sua morte, non sia stata celebrata degnamente. Questo atteggiamento molto italiano, mette in luce un guasto endemico che ci impoverisce enormemente.