Partiamo dal concetto di metamorfosi. Secondo il dizionario è la trasformazione di un essere o un oggetto in un altro che ha natura totalmente differente. La metamorfosi la troviamo anche nella zoologia, quando un animale modifica le sue funzioni in fase di sviluppo. Tra gli animali, ovviamente, c'è l'uomo e di conseguenza l'essere umano non è immune al concetto stesso di metamorfosi. Lo esplicava Ovidio, riprendendo i miti greci e romani, estrapolandoli dal caos ed enfatizzando istinti come l'amore, la paura, la rabbia. Ecco, istinto, caos, trasformazione. Tre colonne che hanno puntellato le sei stagioni di un capolavoro chiamato Better Call Saul, ormai arrivato a quel punto di non ritorno che lo rende molto di più di un semplice spin-off. Chiaro, il legame con Breaking Bad si fa sempre più stringente e marcato, ma dietro la narrazione incrociata dello show sviluppato da Vince Gilligan e Peter Gould c'è altro, molto altro. Epopea umana, letteratura americana, estasi e dannazione di un avvocato sprezzante eppure vulnerabile, in balia di un'incosciente auto distruzione. O meglio, di una vera e propria metamorfosi.
Nota: l'articolo contiene qualche spoiler sugli episodi 8 e 9 di Better Call Saul 6.
L'amore non basta
Che qualcosa fosse cambiato era palese dal finale della quinta stagione, ma con gli episodi 8 e 9 di Better Call Saul 6 (Punti e Premi e Giochi e Divertimento), la rotta è tracciata e il flusso si fa incontrollabile: Jimmy McGill si fa Saul Goodman, Saul Goodman si fa Jimmy McGill. Dal canto suo Bob Odenkirk, che ha avuto un terribile attacco di cuore durante le riprese degli episodi in questione, da grande attore qual è si lascia trasportare dal cambiamento stesso, riuscendo nel giro di un istante a cambiare espressione, toni, rughe della pelle. E lo fa in quello che è uno dei momenti più alti dello show: il finale di Giochi e Divertimento diretto da Michael Morris, nel quale la sua Kim, ossia la splendida Rhea Seehorn, comprende quanto l'amore non possa più bastare. Lo spettatore, pur conscio del destino che l'aspetta, ne esce profondamente tramortito, sconquassato. I punti di riferimento si spezzano, e la messa in scena si fa nera e spaventosa.
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Sì, la seconda parte di Better Call Saul 6, per concezione e tecnica, è qualcosa di molto vicino a un film horror: le lenti anamorfiche, gli spazi stretti, la camera altissima, quasi a piombo, i silenzi, l'aria che si fa asfissiante, il sangue che scorre. Le facce riprese da vicino, a rimarcarne le terrorizzanti increspature delle espressioni. Le certezze che crollano e il ritmo dai giri ormai alterati, mentre le tre linee narrative appaiono impazzite: Jimmy e Kim, l'emotività nascosta di Gus Fring, l'ineluttabilità di Mike. Un umore macchiato e un'idea stilistica che, come Jimmy alias Saul, non poteva essere esentata da uno stravolgimento anche visivo, che pone la serie - almeno per chi sta scrivendo - addirittura un paio di gradini sopra a Breaking Bad. Il motivo? Saul Goodman è l'emblema del cambiamento, l'estensione diretta di quel sogno americano trangugiato da una spaventosa bulimia, masticando e sputando via la nobiltà di un uomo che ha drammaticamente tradito se stesso.
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L'epilogo che meritavamo?
Il dramma, appunto: fin dal primo episodio di Better Call Saul (era Uno, e arrivò su Netflix il 6 gennaio 2016 dopo quasi un anno dalla messa in onda su AMC) conoscevamo bene il destino di Jimmy, ciononostante non avremmo mai immaginato che la metamorfosi finale fosse tanto drammatica ed esplosiva, e che fosse rappresentata appunto in modo imprevedibile, rifacendosi ai canoni degli horror movie. Colpo di genio della produzione, che ha scelto per la resa dei conti il genere più anarchico e irregolare, svincolandosi (anche) dalle regole televisive. Dunque, in mezzo al caos di una tempesta perfetta, generata da un gioco sfuggito di mano, il senso del racconto si rigira su ogni tassello che ha portato all'inevitabile: suo fratello Chuck, l'ombra di Lalo Salamanca, il sacrificio di Howard, perfino lo spocchioso avvocato rivale Bill Oakley. Fili intrecciati, una matassa compatta, voci soliste di un coro perfetto, anch'esso mutato e idealmente mutevole, in balia degli ultimi istanti di un epilogo che è già storia.
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