Niente ghirigori, né giri di parole: la 6x12 di Better Call Saul è una puntata talmente eccezionale da riuscire a dare una totale rilettura all'intera serie. Per dirla in breve, l'inaspettato - che ha sempre caratterizzato lo spin-off di Breaking Bad - qui è portato ad un livello superiore, risultando a più riprese esplosivo, imprevedibile e rivoluzionario. Sessanta minuti scarsi in cui assistiamo alla rovinosa caduta di Jimmy McGill aka Saul Goodman, avvocato guascone e truffaldino divenuto un misero (e pericoloso) criminale senza scrupoli, nascosto dietro i suoi folti baffi e dietro una boriosa e ormai ingestibile arroganza. Dall'altra parte, ecco tornare finalmente Kim, finita talmente lontana da Albuquerque da esserne ormai un corpo estraneo. Dall'inizio alla fine, la dodicesima puntata di Better Call Saul 6, diretta proprio dal creatore Vince Gillian, corrisponde al punto più alto toccato da Kim Wexler e, per un beffardo e meraviglioso gioco narrativo, al punto più basso toccato da Saul Goodman. Perché ormai non c'è più alcun dubbio: è Kim, col il volto di una sempre più straordinaria e viscerale Rhea Seehorn, a cambiare il tempo e l'umore ad un racconto divenuto, capitolo dopo capitolo, raffinata letteratura. Nota: l'articolo contiene spoiler sugli episodi già distribuiti di Better Call Saul 6.
"Piove, come se non ci fosse un domani"
E allora sì, eccoci davvero nel bel mezzo della tempesta, a squarciare un equilibrio effimero: "Piove, come se non ci fosse un domani. E io che pensavo fossimo nel deserto", dice Jesse Pinkman (Aaron Paul, guest star della puntata) a Kim, incontrata per caso (o per destino?) fuori allo studio di Saul, dopo che si sono scambiati i documenti del divorzio. Un incrocio così memorabile da sembrare quasi sospeso nello spazio e nel tempo. Breaking Bad e Better Call Saul non sono mai stati tanto vicini prima di questa scena. Il motivo? Ancora una volta, perché è Kim a fare la differenza, ad essere quel personaggio chiave capace di racchiudere contraddizioni, silenzi, parole, emozioni. E poi piove. In Better Call Saul nulla è lasciato al caso. Andando a memoria - correggeteci se sbagliamo - è la prima volta in cui piove. Avevamo sentito i tuoni accompagnare la rabbia di Lalo Salamanca alla fine della quinta stagione, ma la pioggia nel deserto del New Mexico non c'era mai arrivata. E cos'è l'acqua se non l'elemento purificatore per eccellenza? E Kim, da cosa dovrebbe purificarsi? Ovvio: dal senso di colpa, che ha portato con sé per ben sei anni - lo scopriamo nella fatidica telefonata avvenuta con Saul, all'inizio della 6x11. Piove, anzi diluvia sopra Kim, sopra Saul diventato Gene, sopra un universo narrativo che non ha paura di osare e rompere il patto fatto con i propri spettatori: non è mai stato Jimmy il vero protagonista, ma Saul. Il coraggio di certe scelte, che appaiono brutali, sono la conseguenza di un'inarrestabile rivelazione, in cui no - per rispondere a Jesse - il domani non può più esserci.
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Il punto di non ritorno di Saul Goodman
Del resto, rispettando una tradizione che vuole la penultima puntata di una serie come quella più importante di tutte, la 6x12, intitolata Irrigatori, mantiene la promessa e scombina definitivamente le carte in tavola. Troviamo Kim in Florida, alle prese con un'insalata di patate, un nuovo compagno e un lavoro come impiegata in una ditta di irrigatori (appunto). Il passato sembra passato, almeno fin quando non squilla il telefono. Saul, come sempre parla, parla, parla. Kim ascolta in silenzio, incredula. Nonostante tutto, il passato chiede sempre il conto e, costi quel che costi, è disposto a tutto pur di ottenerlo. Chilometri e chilometri ad ovest, Saul alias Gene finisce per dare il colpo di grazia al nostro Jimmy McGill: si intrufola nell'appartamento di un malcapitato e lo deruba, portandogli via un paio di orologi in preda ad un raptus di avidità. Non lo avremmo mai immaginato, e non avremmo mai immaginato che Saul Goodman fosse anche disposto ad uccidere per farla franca. Non lo farà, ma c'era la percezione che fosse pronto. Sembra folle e incoerente, eppure in una manciata di istanti la narrativa di Better Call Saul cambia di botto, offrendoci una completa e dinamitarda rilettura di una serie capolavoro e, di conseguenza, stravolgendo (o rivelando?) un personaggio che abbiamo profondamente amato. E mentre piove, avvertendo in lontananza l'arrivo dell'uragano, cambia tutto, persino la voce dei personaggi; gli sguardi si fanno cupi, il bagliore si affievolisce lasciando lo spazio a quelle tenebre sovrastate da un asfissiante bianco e nero. "Io avevo fiducia in te", dice la povera Marion (Carol Burnett) guardando in faccia Gene dopo aver smascherato la sua pantomima. Già, noi avevamo fiducia in te, Jimmy.
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Cara, dolce Kim Wexler...
Con il punto più basso e meschino raggiunto da Saul Goodman aka Gene Takovic, la 6x12 corrisponde anche con l'apice narrativo toccato da Kim Wexler. Deus ex machina, variabile lucida e tutt'altro che impazzita, lascia Albuquerque e torna nel mondo senza colori di un presente spietato, decidendo di affrontare con coraggio i fantasmi che la tormentano. In una folgorante sequenza, eccola volare in New Mexico, finendo per raccontare cosa sia successo davvero ad Howard, del fatto che lei insieme a Jimmy lo abbiano raggirato, e che per pura sfortuna si sia trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Lo racconta al Procuratore Distrettuale, entrando dal retro di quel tribunale che conosce marcatamente bene. E qui la macchina da presa, sferrando un colpo mortale, si sofferma su un paio di dettagli che ci riportano violentemente indietro con la memoria: il gabbiotto vuoto di Mike, sostituito da una macchinetta automatica, e una giovane avvocatessa che fa il nodo alla cravatta al suo sdrucito assistito. Lì, in quei corridoi, era nata la scintilla iconica di Better Call Saul e oggi, in quei corridoi, si chiude drammaticamente un'epopea in cui la verità viene finalmente a galla: è Kim Wexler il personaggio da proteggere, e il pianto rabbioso e liberatorio che sfoga dopo aver incontrato, Cheryl, la vedova di Howard Hamlin, è il suo apice, il suo zenit, la sua sacrosanta libertà.
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