Quarant'anni di carriera e l'esigenza di doverci fare i conti, un repertorio di personaggi che negli anni ci ha restituito vezzi, tic e ossessioni dell'italianità, una vis comica che ha fatto di una malinconica amarezza di fondo il suo naturale contraltare, ed una visione della romanità genuina, sincera, popolana. Quasi mezzo secolo di infaticabile studio della varietà umana che oggi pesa sulle spalle di Carlo Verdone come un macigno davanti all'urgenza di raccontare nuove storie. È quello che gli si chiede e allora ecco una nuova squadra di sceneggiatori ad affiancarlo con l'imperativo di creare qualcosa di inedito: per il suo ultimo film, Benedetta follia, il mattatore romano si affida infatti alle trovate del duo di autori di Lo chiamavano Jeeg Robot, Nicola Guaglianone e Menotti.
E con loro arriva anche la vulcanica Ilenia Pastorelli, che conferma il talento degli esordi con Gabriele Mainetti e che il film di Verdone consacra definitivamente regalandole il ruolo di una sciroccata di Tor Tre Teste che, come tante altre figure femminili del passato verdoniano, avrà il compito di metterlo all'angolo, prenderlo a schiaffi e alla fine salvarlo. Benedetta follia non è semplicemente il ventiseiesimo film di Verdone, è un agrodolce omaggio alle sue maschere, una carezza che lo stesso regista e interprete ha voluto concedersi guardandosi indietro con sguardo pacato, malinconico e prendendosi il gusto di riderci su.
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L'omaggio al passato, le donne e l'amore in rete
Un tributo dichiarato sin dalla prima scena del film che si apre nell'estate del 1992 su un Verdone in sella a una Honda 650 quattro cilindri, bandana in testa, occhiali da sole e camicia hawaiana, impegnato ad abbordare la donna che venticinque anni dopo diventerà la sua ex moglie. Sì, perché l'Oscar Pettinari di Troppo forte due decenni più tardi ha ceduto il passo a Guglielmo, uomo di fede, composto e ingrigito, proprietario di un negozio di articoli religiosi per vescovi e cardinali, abbandonato dalla borghesissima moglie Lidia (Lucrezia Lante della Rovere), che lo ha mollato per un'altra donna nel giorno del loro anniversario.
Salvifico l'arrivo di un'improbabile commessa, Luna (Ilenia Pastorelli), eccentrica e procace coatta di periferia, un passato da cubista e un romanesco ciancicato ("S'è accannato pure lei?", "Ce stanno un sacco de tardone a zumba, lì la trova na sessantenne!") con un curriculum assolutamente inadatto per lavorare in un negozio di arredi sacri.
Ma capace con un'inconsapevole e sana irruenza di stravolgergli la vita iscrivendolo a "Lovit", un' app per trovare l'anima gemella che lo inizierà agli incontri più strani e imbarazzanti: dalla logorroica e ipocondriaca Raffaella (Paola Minaccioni), alla sexy e conturbante Adriana (Francesca Manzini), fino alla pacata Ornella (Maria Pia Calzone).
Il cortocircuito comico nei duetti con ognuna di loro, in particolare con la travolgente e spudorata Luna, rispolvera vecchie situazioni che di per sé divertono e anche tanto; il problema è quando la visione del film si allarga dai dettagli, dalla verve dei singoli siparietti in cui Verdone è maestro indiscusso, all'insieme della storia che ha il sapore di una commedia già vista con qualche sottotrama di troppo, e che nella seconda parte rischia di diventare addirittura accomodante.
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Il lungo abbraccio a Roma
Chapeau però al coraggio dell'autore romano, che si è saputo concedere qualche inedito azzardo grazie alle sequenze ideate da Guaglianone e Menotti: come la scena con la Manzini, al tavolo di un ristorante, che cita in maniera esplicita la sequenza cult di Harry, ti presento Sally, in cui un cellulare con vibrazione diventa malauguratamente oggetto erotico; o quella in cui Guglielmo, sballato da una pasticca di ecstasy spacciata per paracetamolo, si ritrova a ballare in un trip psichedelico (su coreografie di Luca Tommassini) circondato da preti e suore. O quando parla allo specchio con il Verdone del passato che lo esorta a vivere: "Volevi girare il mondo e non sei arrivato neanche a Torvaianica. Cerca di vivere e non di esistere".
Benedetta follia diventa così anche l'amara parabola di un uomo solo che ha superato da un pezzo la mezza età ed ora disilluso, stanco e senza più il coraggio di sognare si ritrova a smontare e rimontare la sua vecchia Honda, perché lo rilassa.
Gli si potrebbe obiettare un finale fin troppo consolatorio, ma è lui stesso a definirlo "un grande abbraccio" a se stesso e alla sua Roma, "una puttana di cui non si può fare a meno" come verrà apostrofata in una delle battute del film. Una città pacificata e lontana dalle cronache più recenti, che accompagnata dalle note di E la chiamano estate rievoca quella in bianco e nero di un tempo che è stato e che forse non tornerà mai.
Movieplayer.it
3.0/5