Sono un esperto di strade. È tutta la vita che assaggio strade. Questa strada non finirà mai... probabilmente gira tutta intorno al mondo.
Non è casuale partire dall'epilogo per riaccostarsi a un'opera come Belli e dannati. La battuta di chiusura del film, seguita dall'ennesima crisi narcolettica del protagonista e dalla panoramica di quella strada nella campagna dell'Idaho che si perde verso il nulla, ci riporta alla scena iniziale della pellicola: una lunga strada deserta sotto il cielo dell'Idaho, prima che tutto si faccia buio e il giovane Mikey Waters si accasci a terra, privo di conoscenza.
È un indice della natura circolare del terzo lungometraggio di Gus Van Sant: un racconto on the road in cui la strada è al tempo stesso un rifugio confortevole, una via di fuga oppure una sorta di trappola. "So sempre dove sono da come è fatta una strada. Perciò so di essere già stato qui e di essermi già trovato bloccato qui, altre volte, in questo stesso posto": un "eterno ritorno" da cui Mikey, il personaggio interpretato da un River Phoenix appena ventenne, sembra essere impossibilitato a sottrarsi. La sua avventura, dunque, non è un semplice tragitto da un luogo all'altro, ma un viaggio privo di destinazione; una ricerca votata al fallimento, sempre sulle orme di se stesso.
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My Own Private Idaho
Preceduto dalle fortunate presentazioni ai Festival di Venezia, Toronto e New York, Belli e dannati faceva il suo debutto nei cinema statunitensi esattamente venticinque anni fa, il 29 settembre 1991, distribuito da una divisione della New Line specializzata nel circuito indipendente e registrando, nel corso delle settimane a venire, un milione e mezzo di spettatori. Da allora la carriera di Gus Van Sant, cineasta non ancora quarantenne originario del Kentucky e residente a Portland, avrebbe spiccato il volo, portandolo ai successi più mainstream della black comedy Da morire (1995) e soprattutto di Will Hunting - Genio ribelle (1998), con tanto di consacrazione dell'Academy. Eppure, a dispetto di una dimensione produttiva molto più contenuta, nella filmografia di Van Sant My Own Private Idaho - questo l'evocativo titolo originale, ripreso dalla canzone Private Idaho dei B-52's - è il capitolo che ha acquisito maggiore forza iconica, nonché quello che, con tutta probabilità, si è impresso in maniera più penetrante nell'immaginario del cinema americano degli anni Novanta.
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Nel 1991 Van Sant aveva già alle spalle due lungometraggi: Mala Noche, pellicola realizzata a bassissimo budget in bianco e nero nel 1985, e Drugstore Cowboy, trasposizione del libro autobiografico di James Fogle e primo lavoro di Van Sant, nel 1989, a riscuotere ampi favori di critica e di pubblico, anche per merito della presenza di un protagonista già affermato come Matt Dillon. In entrambi i casi, il regista aveva rivolto la propria attenzione ai margini più estremi e disagiati del tessuto sociale: in Mala Noche le peripezie di due immigrati messicani nell'Oregon; in Drugstore Cowboy il tunnel di violenza in cui precipitano il tossicodipendente Bob Hughes, sua moglie e una coppia di amici. In maniera analoga, in Belli e dannati Van Sant torna a raccontare lo squallore quotidiano e la vita di strada dei suoi giovani antieroi, dipinti sulla base delle sue stesse esperienze: il contatto con il sottobosco losangelino di povertà e di prostituzione di cui Van Sant era stato testimone nei primi anni trascorsi a Hollywood, osservando il contrasto stridente fra le luci della "città degli angeli" e le tenebre dei quartieri più malfamati.
Ragazzi da marciapiede
Eppure Belli e dannati non può essere ascritto ad un presunto filone neorealista, ma è piuttosto il frutto di una pluralità di suggestioni: l'interesse per la cronaca della "vita da marciapiede", coltivato da Gus Van Sant fin dagli anni Settanta, epoca a cui risalgono i primi tentativi di scrivere una sceneggiatura sull'argomento; un soggetto, dal titolo In a Blue Funk, incentrato su un'indagine delle proprie radici familiari, un aspetto che sarà centrale per la definizione della figura di Mikey; e un progetto a dir poco ambizioso, ovvero una rivisitazione in chiave moderna dell'Enrico IV di William Shakespeare, intitolata Howling at the Moon. Van Sant conserva tutti questi spunti fino ad amalgamarli in un progetto unico: Mikey Waters diventa così il marchettaro affetto da narcolessia che, nei suoi momenti di 'oscurità', sogna la madre da cui è stato abbandonato molto tempo prima, mentre il suo migliore amico e "compagno di marciapiede", Scott Favor, assume i contorni di un contemporaneo Principe Hal, ovvero il futuro Enrico V shakespeariano.
Scott, infatti, è il figlio del Sindaco di Portland e ha rinnegato il padre, insieme agli status symbol e ai privilegi della classe borghese, per tuffarsi in un'esistenza borderline. Van Sant affida il ruolo a un altro divo emergente contraddistinto da una bellezza efebica: il ventiseienne canadese Keanu Reeves, il quale si era fatto conoscere in film come Le relazioni pericolose e Parenti, amici e tanti guai, e che solo un anno prima aveva già recitato accanto a River Phoenix nella black comedy Ti amerò... fino ad ammazzarti di Lawrence Kasdan. Se Mikey si prostituisce per necessità, perché è l'unica forma di sussistenza che conosce (in una delle prime scene lo vediamo implorare un maturo cliente di alzargli dieci dollari, mentre quest'ultimo è seduto sul water), Scott è un ribelle dall'atteggiamento provocatorio, che schernisce l'autorità costituita e frequenta i marciapiedi in maniera più consapevole e disinibita. Nella compagnia di cui fanno parte, composta prevalentemente da altri ragazzi di strada, si distingue poi una figura imponente: Bob Pigeon (William Richert), mentore buffonesco e vanaglorioso, ricalcato su una delle più celebri creazioni shakespeariane, Falstaff.
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Take a walk on the wild side
Gli echi di Shakespeare, e le conseguenti variazioni nel registro linguistico (compreso l'uso del blank verse), sono solo uno degli esempi dell'eterogeneità di un film come Belli e dannati, che fonde al proprio interno la crudezza semidocumentaristica di Mala Noche con inserti surreali e poetici: i sogni di Mikey, l'immagine della fattoria che precipita al suolo, il bizzarro dialogo fra i personaggi dalle copertine di riviste porno gay, il numero da cabaret di Udo Kier, le immagini 'bloccate' nella breve sequenza erotica fra Scott e l'italiana Carmela (Chiara Caselli), nella campagna appena fuori Roma. È una delle ragioni alla radice del fascino di questo atipico road movie: il coraggio con cui Van Sant mescola stili e suggestioni differenti, trasportando lo spettatore dal dramma alla commedia, dal mélo al grottesco, quasi senza soluzione di continuità.
Belli e dannati, del resto, è tutt'altro che un film armonico: si tratta al contrario di un'opera frammentaria, costruita su continui azzardi, ellissi e repentini sbalzi narrativi. Non è però neppure il frutto dello sperimentalismo del Van Sant più maturo, quello che oltre un decennio più tardi porterà ad esiti quali Elephant, Last Days e Paranoid Park: qui il gusto del racconto è sempre vivissimo e pulsante, così come appare evidente la passione del regista per i contrasti (si pensi al prefinale, con le duplici esequie funebri e la banda di Pigeon che salta e strepita nel bel mezzo del cimitero). Ciò che più colpisce, tuttavia, è il pathos che Gus Van Sant non nega mai ai suoi protagonisti: a questi "ribelli senza causa" (per citare il classico di Nicholas Ray) che nonostante tutto conservano un'infantile innocenza, una purezza 'pasoliniana' in grado di proteggerli dalla corruzione morale del mondo irto di insidie che li circonda.
"Io ti amo e... tu non mi paghi"
Ed è appunto tale purezza a caratterizzare la figura di Mikey e a renderlo forse il personaggio simbolo del New Queer Cinema, movimento di cui Van Sant è stato il più apprezzato alfiere. Mentre, al termine del loro viaggio, Scott cederà alle lusinghe del conformismo borghese, in un amarissimo 'tradimento' dei suoi ex sodali, per Mikey non c'è (ancora) la possibilità di una vita diversa: quella "normalità" vagheggiata con doloroso rimpianto ("Normale come una mamma e un papà e un cane"). E River Phoenix, che aveva già dato prova di un talento fuori dal comune in Stand by Me - Ricordo di un'estate e Vivere in fuga, si cala nei panni di questo ragazzo di strada con un senso di immedesimazione che lascia stupefatti, attingendo anche da un'adolescenza 'itinerante'. Dirà a tal proposito Van Sant: "Aveva il proprio background a cui rifarsi. Penso che River abbia trascorso l'intera giovinezza a viaggiare con la sua famiglia, senza legami con la società, senza radici, senza stabilità. Ha creato lui stesso quel personaggio". E la performance che ne ha saputo trarre, ricompensata con la Coppa Volpi come miglior attore al Festival di Venezia, è degna veramente di un novello James Dean: il punto più alto di una carriera spezzata con tragica precocità (Phoenix sarà stroncato dalla droga appena due anni dopo).
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Consapevole del potenziale del suo giovanissimo attore, Gus Van Sant ha lasciato a Phoenix ampio spazio per improvvisare, al punto da acconsentire a fargli riscrivere per intero la scena più famosa dell'intero film: Belli e dannati oggi non sarebbe un tale cult movie, infatti, se non fosse per l'emozionante dichiarazione d'amore di Mikey a Scott di notte, davanti al fuoco. "Lo so che sono tuo amico... siamo buoni amici, ed è bello essere... sì, buoni amici, questa è una bella cosa", mormora Mikey, con sguardo basso e voce tremante; "E allora io... va bene così. Possiamo essere amici?". "Io faccio sesso con gli uomini solo per soldi. Due uomini non possono amarsi", replica Scott, mentre l'altro aggiunge: "Be', non lo so, voglio dire... insomma, per me... io potrei amare un uomo anche se... anche se lui non mi pagasse. E io ti amo e... tu non mi paghi". E il silenzioso abbraccio che subito dopo Scott concede a Mikey, la sua carezza sui capelli dell'amico, sono fra i momenti più autenticamente dolci e toccanti che il cinema ci abbia regalato in questi ultimi venticinque anni.