Il poeta irlandese Paul Celan diceva che la poesia è "una specie di ritorno a casa". Può esserlo, a volte, anche il cinema. L'arrivo nelle sale, il 24 febbraio, di Belfast, il bellissimo film di Kenneth Branagh ispirato alla sua infanzia, è l'occasione per fare un parallelo su due registi che, quasi contemporaneamente, hanno deciso di guardarsi indietro, raccontare la loro infanzia o adolescenza, e quindi le loro paure e i loro sogni più intimi, insomma di mettersi a nudo. Kenneth Branagh e Paolo Sorrentino, con Belfast ed È stata la mano di Dio, hanno firmato entrambi la loro opera più personale. Paolo Sorrentino, nella finzione cinematografica diventa Fabietto, un ragazzo di sedici anni che perde i genitori per una fuga di gas nella loro casa in montagna, a Roccaraso. Kenneth Branagh, nel film ispirato alla sua infanzia, si identifica in Buddy, nove anni, che vive a Belfast insieme ai genitori mentre in città hanno inizio i troubles, i disordini tra cattolici e protestanti. I due registi hanno scelto di tornare indietro nel tempo, e di raccontarci in modo schietto, per quanto filtrato dalla magia del cinema, dei momenti chiave della loro vita. Un'idea di partenza molto simile, due età diverse da evocare, due modi di raccontare con il cinema completamente diversi.
Partire per un sogno o partire per sopravvivere
"Per quelli che sono rimasti. Per quelli che sono partiti. E per tutti quelli che si sono persi". È questa la dedica con cui Kenneth Branagh firma il suo film, quella che appare nel finale. Ma è la scelta chiave anche del film di Paolo Sorrentino. Restare o partire? Fabietto pensa di partire per un sogno, quello di diventare un regista. Buddy parte prima di tutto per sopravvivere, per una vita più serena lontana dalle bombe e dalle barricate. C'è il cinema a salvare la vita ad entrambi, certo. E, come sappiamo, c'è il cinema nel loro futuro. Però Fabietto ormai è solo, non ha più i genitori, deve decidere senza qualcuno che possa veramente scegliere per lui. Buddy è invece circondato ancora da tutta la famiglia, il padre e la madre, litigiosi ma ancora innamorati, il fratello, gli amatissimi nonni. Saranno i genitori a scegliere per lui. E quella scelta di vita indirizzerà anche il suo futuro.
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L'amore a nove e a sedici anni
Belfast ed È stata la mano di Dio sono due ritorni a casa, due ricerche del tempo perduto. Ma i due registi scelgono di raccontare due diversi momenti della loro formazione. Kenneth Branagh sceglie di raccontare il se stesso bambino, a nove anni, le scuole elementari e una vita che - se non fosse per le bombe e le sommosse dell'Irlanda del Nord di quegli anni - sarebbe ancora una vita spensierata. Le corse per strada, i piccoli furti allo spaccio, le chiacchierate con i nonni. Paolo Sorrentino racconta il sé adolescente, a sedici anni, quel momento chiave, delicatissimo, che è il liceo, quelle ricreazioni in cortile dove tutti giocano a pallone tranne te, quel chiudersi in se stessi con il walkman e le cuffie sulle orecchie. Ed è normale allora che l'amore sia diverso. A nove anni è platonico, idealizzato, è la bionda e dolce compagna di classe con cui fare un lavoro per scuola, o andare a salutare da una finestra. A sedici anni è l'amore fisico, una prima volta che non arriva, e quando arriva non è quella che hai sognato. È fantasticare sulle donne più mature come l'immaginaria Zia Patrizia, il simbolo del turbamento sessuale tipico di quell'età, dell'infatuazione per l'altro sesso, che a quell'età è un mondo ignoto e affascinante.
Gli anni Sessanta in Irlanda e gli Anni Ottanta in Italia
Diverse età e diverse epoche. In questo senso È stata la mano di Dio e Belfast sono completamente diversi. Crescere nella Belfast degli anni Sessanta, dove si stava abbattendo la scure del terrorismo, è completamente diverso da crescere nella Napoli degli anni Ottanta, in un'Italia che dal terrorismo era uscita, e si voleva sentire spensierata, giocosa, leggera. L'Inghilterra protestante incombe come una minaccia negli anni Sessanta nell'Ulster, è invece scherzata, giocando a pallone, da Maradona negli anni Ottanta. E, se a Belfast il cielo è plumbeo e opprimente, a Napoli è sereno, e il sole si specchia nel mare. Sono due mondi completamente diversi: un'Irlanda dove la povertà era all'ordine del giorno, e un'Italia che si specchiava nel suo benessere e nella sua futilità.
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Il bianco e nero, il colore e il cinema
I colori dei due film sono uno specchio di queste atmosfere. Il bianco e nero di Belfast evoca da un lato il Neorealismo e i notiziari di un tempo, mentre altre inquadrature sembrano quelle di un cinema classico hollywoodiano. I colori di Sorrentino sono solari, quelli delle estati spensierate che vivevamo da ragazzi negli anni Ottanta. È sempre felliniano il cinema di Sorrentino, vive sempre di grandi inquadrature, ma stavolta è meno costruito, si fida della storia e si affida alla storia. Il cinema c'è, è Fellini ma anche Capuano, è un sogno all'orizzonte, è il futuro, ma non è preponderante nella storia. Lo è di più in Belfast, con Mezzogiorno di fuoco, Chitty Chitty Bang Bang, Un milione di anni fa. Ma la citazione, in entrambi i casi, non è mai invadente.
Non ti disunire
Nei romanzi di formazione ci sono sempre dei modelli per i ragazzi, delle figure di riferimento. E poi un mentore. Le figure di riferimento, per Fabietto e per Buddy, sono prima di tutto i genitori. In entrambi i casi sono idealizzati. I genitori di Buddy (interpretati da Caitriona Balfe e Jamie Dornan) sono belli come due star del cinema. Quelli di Fabietto (Teresa Saponangelo e Toni Servillo) sono dei genitori amabili: simpatici, ironici, complici. E Paolo Sorrentino ha raccontato che erano davvero così. E poi c'è l'immancabile mentore. Per Fabietto è Antonio Capuano, il regista, che gli dice il suo famoso "non ti disunire". Per Buddy è il nonno. Che gli dice chiaramente "Se loro non ti capiscono vuol dire che non ti ascoltano. È un problema loro". Sono quelle parole che ti fanno stare meglio al mondo. E Belfast ed È stata la mano di Dio sono quei film che ti fanno stare meglio al mondo.
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