È una pellicola difficilmente definibile, Behemoth. Fra i titoli in concorso per il Leone d'Oro alla 72° edizione della Mostra di Venezia, e secondo i pronostici della vigilia fra i potenziali favoriti per uno dei premi principali, il film diretto dal regista cinese Zhao Liang è insieme un documentario estremamente specifico sulle condizioni dei minatori della Mongolia, ma anche un'opera mondo sulla civiltà contemporanea e sul prezzo altissimo di un progresso capace di assumere contorni disumani.
Al quinto lungometraggio della sua carriera, e per la prima volta in competizione nella sezione principale di uno dei più prestigiosi festival internazionali, Zhao Liang conferma l'apertura di Venezia 2015 nei confronti di pellicole che mescolano i generi e oltrepassano regole e convenzioni cinematografiche, assimilando elementi del documentario e della videoarte in un tessuto filmico composito, come già osservato in altri titoli in concorso quest'anno al Festival (Francofonia - Il Louvre sotto occupazione di Aleksandr Sokurov, Rabin, the Last Day di Amos Gitai e Heart of a Dog di Laurie Anderson).
La Cina è vicina, l'inferno ancora di più
"Egli è la prima delle opere di Dio; solo il suo Creatore lo minaccia di spada. Benché i monti gli offrano i loro prodotti e tutte le bestie domestiche vi si trastullino, egli si sdraia sotto i loti, nel folto del canneto e della palude". È la descrizione offerta nel Libro di Giobbe del Behemoth, la creatura biblica in grado di divorare i 'frutti' delle montagne: una mostruosa allegoria della follia moderna, di un'avidità senza scrupoli che trasforma gli esseri umani in anime dannate costrette ad addentrarsi, giorno dopo giorno, in un inferno di roccia e di fuoco. Così può essere sintetizzata la tesi (se tale si può definire) offerta da Zhao Liang, il quale incolla la macchina da presa ai volti e ai corpi senza voce degli operai delle miniere di carbone nelle aree montuose della Mongolia. Behemoth, del resto, è innanzitutto questo: una raggelante discesa negli inferi, che si ispira ai versi della Divina Commedia per raccontare il presente... il presente della Cina odierna, ma in senso più ampio una realtà che potrebbe essere applicata ad una pluralità di luoghi e di epoche differenti. In tale prospettiva, Behemoth travalica la propria natura di semplice documentario, infrange qualunque barriera fra i generi ed offre un'esperienza cinematografica straordinariamente immersiva, in virtù di quelle immagini poderose, di quei volti segnati e sofferenti, che a tratti sembrano quasi emergere dallo schermo.
"Il mostro siamo noi"
Dalle altezze vertiginose delle cime della Mongolia alle oscure profondità delle miniere, dal frastuono dei cantieri al lugubre silenzio delle stanze d'ospedale, in cui la letale polvere di carbone aspirata da migliaia di operai si deposita in fiale di veleno nerastro: sequenze che, senza alcun bisogno di commento, già trasmettono appieno l'orrore quotidiano degli "schiavi della montagna", costretti ad attraversare il purgatorio della malattia. Il Behemoth, pare volerci dire Zhao Liang, reclama le proprie vittime, ma il Behemoth siamo noi: l'invettiva contro la bestia divoratrice viene sintetizzata anche nei cartelli al termine del film, che tuttavia non hanno molto da aggiungere alla spaventosa messa in scena dell'inferno sulla Terra. E prima di congedarsi dal mostro, Zhao Liang ci consegna altre sequenze che si stampano seduta stante nella memoria: l'itinerario fra le strade deserte di un'immensa città fantasma. La cinepresa avanza fra megalopoli di cemento e asfalto, la cui immacolata perfezione rivela ad ogni angolo, ad ogni dettaglio la totale assenza dell'essere umano: un incubo ad occhi aperti che prende forma e diventa il nostro "oggi", con un panorama metropolitano cristallizzato nella sua spettrale immobilità. Una distopia fantascientifica che è già qui, adesso, davanti al nostro sguardo, in tutta la sua assurda concretezza...
Movieplayer.it
3.5/5