L'horror è un genere sottovalutato. Soprattutto di recente, soprattutto in Europa e soprattutto da noi, anche se qualcosa si sta muovendo sia tra i giovani autori sia dalle parti di qualche nome illustre, che però purtroppo non può essere più associato alla nostra industria cinematografica. Eppure dall'altro lato dell'oceano è esploso ormai da qualche anno il cosiddetto elevated horror, un filone che ha la capacità di gridare a gran voce una cosa che fondamentalmente è sempre stata valida, ovvero che questo genere ha la capacità straordinaria di parlare di qualsiasi cosa.
Tematiche sociali, umane, politiche, storiche. Alla fine l'orrore si annida dappertutto e l'horror è un genere che vive per metafore, simbolismi e allegorie dirette, quindi con dei meccanismi semplici e facilmente applicabili. Ari Aster, per esempio, si è imposto in questa scena grazie al suo interesse per i microcosmi familiari. Eredità, rituali, rapporti di forza, equilibri, sesso e frizioni, trovando la propria ossessione nella figura materna. Una sorta di complesso edipico al contrario, giocato sul ribaltamento del ruolo salvifico della madre, trasformata nella fautrice di un incubo. Una provocazione se guardiamo all'utilizzo di questa figura nel cinema contemporaneo e un sintomo tangibile di un'ossessione del cineasta statunitense, che ha voluto però attendere il suo terzo lungometraggio, Beau ha paura, prima di tornare ad occuparsene.
Il film con protagonista Joaquin Phoenix parte infatti da molto lontano. Dal 2011 per la precisione, anno in cui Aster gira due cortometraggi, uno dei quali s'intitolava proprio Beau. Riferimento voluto fortemente dal regista, che ha cambiato il titolo del film del 2023 dall'originale previsto, Disappointment Blvd. Ma come si è evoluta la figura materna all'interno del pensiero "asteriano"?
Il terrore "familiare"
Il primo dei cortometraggi del 2011 di Ari Aster è The Strange Thing About the Johnsons (lavoro di laurea per l'American Film Institute), la storia di una famiglia incestuosa in cui però la madre viene tagliata fuori per lasciare spazio al duo figlio-padre. Il titolo parla infatti di un ragazzo che si innamora di suo papà, arrivando, nel corso del tempo, ad abusare sessualmente dell'uomo fino a spingerlo al suicidio (il cortometraggio è disponibile interamente su YouTube). Eccolo il ribaltamento terrorifico del regista (in questo caso da pedofilia a gerontofilia), che si diverte così a capovolgere vittima e carnefice in modo da approfondire la ricerca su dove si trovi il nucleo horror che porta alla creazione del mostro. La demonizzazione del sesso è un altro dei suoi must, recuperato direttamente da John Carpenter, che lo utilizzò come punto di partenza per un certo film del 1978.
Beau ha paura, la recensione: il film di Ari Aster è una meravigliosa menzogna
Da questo lavoro si distacca decisamente con Beau, che invece spoglia il figlio di tutte le sue difese, rendendolo incapace di proteggersi dal mondo esterno, da cui si rende progressivamente conto di essere assediato. La mamma torna ad essere un elemento positivo, ma non un elemento di aiuto, anzi. Ella è la luce in fondo al tunnel, il miraggio da inseguire che però condanna il bambino a combattere contro i propri mostri da solo, per di più allietandolo con la falsa promessa di trovare conforto una volta arrivato a dama. Un altro ribaltamento che vede l'amore trasformarsi in senso di colpa. Centro tematico di Beau ha paura.
Eppure, malgrado la ripresa del titolo, non è il lavoro del 2011 il parente più prossimo dell'ultima pellicola di Ari Aster, ma il cortometraggio del 2013, Munchausen. Un quarto d'ora senza dialoghi in cui il cineasta riesce a mettere in scena il disfacimento di una favola che vede un bambino felice, spensierato e di sicuro successo, morire a causa dell'incapacità di una madre amorevole di sopportarne la naturale emancipazione. Una delle cose più notevoli che si trovano in questo lavoro (a parte la partecipazione di Rachel Brosnahan, che lavorò con il regista per un altro corto un paio di anni dopo) è il gioco tra i diversi registri linguistici, pensato per restituire l'idea di trappola in grado di tramutare il calore e la serenità dell'abbraccio domestico in un incubo da cui non si può uscire.
Ancora un ribaltamento insomma, che tradisce quel nichilismo alle radici dell'ironia di Aster, il quale continua però a riservare una certa pietà per la madre assassina, decidendo di sospenderne la sentenza definitiva.
Essere l'oggetto di tutto l'amore di una persona è una maledizione
Sentenza arrivata in modo più convinto in Beau ha paura, che, nonostante debba, fondamentalmente, la sua prima parte al cortometraggio del 2011, potrebbe essere facilmente un sequel di Munchausen nel caso fortunato (o sfortunato visto il destino di Beau) che il protagonista fosse riuscito a salvare la pelle. La pellicola del 2023 è il discorso più complesso di Ari Aster sulla figura materna, ritratta come la massima espressione della crudeltà del Super Io, rielaborato in una forma così mefistofelica, infida e sfuggente da far impallidire persino Sigmund Freud. Tra l'altro scegliendo proprio Joaquin Phoenix come attore, cioè uno che con le interpretazioni di figli vittime delle mamme ha una certa esperienza (pensate a Joker, giusto per citarne uno).
Beau ha paura: la (nostra) spiegazione del finale
L'Odissea di Beau è una via crucis verso la castrazione definitiva di un uomo ad opera di una figura che neanche la morte può fermare, utilizzata come l'ennesimo strumento distorto e manipolatorio per evirare il povero figlioletto, destinato a non poter diventare adulto. Aster individua nell'amore materno la condanna della prole, costretta a fare i conti con un sentimento malato e per questo facilmente trasfigurabile in possessione e gelosia estrema. Le conseguenze possono essere quelle di trasformarlo in un finto rimedio alla solitudine o in un innaturale congelamento dei ruoli familiari. Ad ogni modo, è cosa nota che essere l'oggetto di tutto l'amore di una persona è una maledizione.
Eccolo il mostro di Beau ha paura, che non è quello in soffitta, come si potrebbe pensare ad una prima visione. Molti si accontenterebbero di questa rivelazione (non è poco), ma il cineasta newyorkese decide, da buon ossessionato, di spingersi ancora oltre. Nell'ultimo atto della pellicola infatti egli rivolge il suo sguardo accusatorio verso il figlio, la vittima fino a quel momento, invitando il pubblico a mettersi dalla prospettiva materna e portandolo così a soffermarsi su un ultimo ribaltamento: potrebbe essere infatti anche colpa sua se questo distacco non è ancora avvenuto. Soluzione reale o ennesimo tourbillon patologico causato dall'impossibilità di arrivare ad un verdetto definitivo? Meditiamo.