Pochi giorni ci dividono da una Notte degli Oscar che, tra i suoi principali motivi d'interesse, vede la battaglia contro il razzismo sistemico ottenere un traguardo importante: sette interpreti non bianchi in nomination non si erano mai visti, e in generale la presenza massiccia di cineasti e pellicole che riflettono i temi e contributi della comunità black è la testimonianza di un'attenzione inedita verso questi valori e queste produzioni. Ma prima di ogni altra cosa è testimonianza dell'indiscutibile qualità di questi film.
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Perché a parlare del riconoscimento da parte dell'industry hollywoodiana dell'eccellenza di opere come Barriere, Moonlight e Il diritto di contare come di una forzatura politically correct, a reclamare la necessità di "valutare solo i meriti effettivi" di artisti e cineasti sono coloro che, da una posizione di privilegio e indifferenza per le diseguaglianze, sono miopi di fronte a ciò che rende impossibile una valutazione oggettiva, spassionata e equa di tali "meriti effettivi" (in questo caso principalmente l'età anagrafica, il sesso, il background, il profilo razziale - e relativi pregiudizi - della maggior parte dei membri dell'Academy of Motion Picture Arts and Science), e hanno dimenticato che le regole del gioco cambiano solo se chi si trova in una condizione di ingiusto svantaggio trova il modo di farsi ascoltare per cambiarle.
Tutto questo preambolo per avvicinarci a un altro film che, come Moonlight e Il diritto di contare, ha avuto dalla sua sia il tempismo che l'eccellenza. Troy Braxson, il protagonista di Barriere, è un compendio fortuito ma significativo al giovane Chiron raccontato in Moonlight. Pur con le dovute distanze cronologiche e geografiche (Barriere è ambientato a Pittsburgh nel 1957), Troy rappresenta il machismo tossico che opprime l'omosessuale Chiron; così all'esuberanza sessuale di Troy corrisponde la repressione e la marginalizzazione di Chiron. Ma Barriere, come Moonlight, non si limita a illustrare le tensioni e le urgenze della comunità black in un mondo che cambia, ma racconta, con lucidità e compassione, l'universalità della condizione umana.
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I peccati dei padri
Se è immediata e istintiva la simpatia nei confronti del protagonista di Moonlight, non è altrettanto facile accostarsi con equilibrio e pietà a un personaggio come Troy, uomo autoritario, egoista, incapace di meritare il rispetto dei suoi figli né l'amore di sua moglie. Né August Wilson, che per il suo dramma Fences vinse il premio Pulitzer nel 1987 (giusto qualche anno prima di #OscarSoWhite), né il regista di Barriere Denzel Washington ci fanno sconti sui vizi e gli spigoli della personalità di Troy, ultimo di una stirpe di uomini brutali, avvelenata dalle ingiustizie e dall'alcool da due soldi. Eppure, senza mai farsi apologia, Barriere, come il dramma teatrale a cui è fedele al punto di incorrere nel rischio di qualche eccesso di artificiosità e melodramma, esplora il personaggio con tale impegno e dispiego di dettagli, raccontando i suoi successi e le sue frustrazioni, le sue relazioni passate e presenti, da finire per metterci di fronte a una sorprendente e scomoda evidenza: l'impossibilità di dare un giudizio morale su un altro essere umano, e il fatto che superare o innalzare una barriera tra noi e l'altro è sempre e inevitabilmente il risultato di una scelta di cui dobbiamo assumerci la responsabilità.
Troy è marito devoto e mascalzone fedifrago allo stesso tempo; padre padrone violento e dispotico, ma anche origine del talento e dell'indipendenza dei suoi figli; amaramente rassegnato all'impossibilità di superare le barriere razziali, e allo stesso tempo guerriero e pioniere del cambiamento. Nello splendido e fluviale testo di Wilson queste contraddizioni convivono in una ricchezza umana e tematica che l'interpretazione di Washington abbraccia con efficacia sbalorditiva.
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Un palco, un cortile, infinite recinzioni
È probabile che il plauso e gli allori tributati a questa interpretazione (e a quella di Viola Davis nel ruolo della moglie di Troy, Rose) in occasione del revival di Fences a Broadway abbiano avuto un ruolo nell'indurre Washington a portare il dramma sul grande schermo, ma l'operazione non ha nulla di narcisistico: al cuore di tutto c'è il testo di Wilson, che firma personalmente questa sceneggiatura candidata all'Oscar, e i personaggi di cui Denzel e Viola, forti della lunga esperienza teatrale, hanno una padronanza assoluta. Come regista, Washington ha il pregio di non accodarsi stancamente alla tradizione che vuole nell'adattamento delle opere teatrali un dinamismo che spesso le snatura, per conservare invece l'unità di luogo, l'intimità e i vincoli del medium originario.
Perché Barriere, come suggerisce senza troppa sottigliezza il titolo, è opera che parla di vincoli, limiti mal sofferti, ostacoli e coercizioni, incluse quelle della schiavitù, sempre alla base della consapevolezza afro-americana. La recinzione vera e propria a cui lavorano Troy e suo figlio Corey nel corso della storia - quella che per Rose rappresenta lo strumento per impedire ai suoi cari di allontanarsi da lei, mentre per Troy serve a impedire l'ingresso dei nemici, incluso il più terribile, spesso invocato, Mr. Morte - è sempre programmaticamente ai margini dell'inquadratura, mentre il mondo di fuori si avvicina inesorabilmente per osservare il mutamento della spavalderia di Troy in isolamento e disperazione. A suggerirlo, il rumore del traffico, le voci e i suoni dell'ambiente esterno, sempre costanti, e i semplici movimenti di macchina circolari di Washington e della sua direttrice della fotografia Charlotte Bruus Christensen, che mimano il nostro accostarci ai personaggi per ascoltare le loro strazianti confessioni.
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L'anima dell'attore
Senza tentare di riprodurre l'unicità dell'esperienza teatrale (e che esperienza deve essere stata!), e condannando il suo film a essere considerato da molti troppo statico e verboso per essere davvero cinematografico, Denzel Washington non si risparmia nell'impresa di catturare l'intensità, la densità e i simbolismi del dramma di Wilson, e di mettere le interpretazioni - la sua e quella di Davis in primis, ma anche le altre: non ce n'è una che non dia i brividi - nella miglior luce possibile, evidenziandone la centralità nel contesto teatrale. In un momento in cui il cinema inizia a contemplare la possibilità che la tecnologia sostituisca interamente l'elemento umano anche nella recitazione, Barriere ci ricorda che il corpo e l'anima dell'attore sono insostituibili e irriproducibili. Un tributo commovente e sentito al suo mestiere da parte di uno dei più grandi attori viventi.
Movieplayer.it
3.5/5