Superati i 50 anni alcuni dei più noti e apprezzati registi cinematografici hanno ceduto alla "tentazione 8emezziana": prima Alfonso Cuarón con Roma, poi Paolo Sorrentino e il suo È stata la mano di Dio, adesso Alejandro González Iñárritu. A sette anni di distanza da Revenant, il regista messicano torna finalmente sul grande schermo, per di più in concorso a Venezia 79: la recensione di Bardo, cronaca di una falsa verità comincia quindi col dire che, a volte, la crisi di mezza età non è un male.
Federico Fellini continua a fare scuola: Cuarón, Sorrentino (che non a caso lo ha citato nel suo discorso di ringraziamento per la vittoria dell'Oscar assegnato a La grande bellezza) e Iñárritu hanno imparato bene la lezione del maestro, creandosi degli alter ego, attraverso i quali mettere in scena idiosincrasie, sogni, angosce. Tutto mescolato indistintamente e indissolubilmente con ricordi veri e fatti personali, in un amalgama che unisce finzione e biografia, in un grande disegno che riflette allo stesso tempo sul cinema, sulla vita dei registi e sui rispettivi paesi in cui hanno vissuto.
Per Cuarón e Iñárritu, amici, si tratta anche della stessa terra: il Messico. Le similitudini non finiscono qui. Un altro elemento in comune tra queste tre opere è la N rossa di Netflix: proprio come È stata la mano di Dio e Roma, anche Bardo, cronaca di una falsa verità uscirà sulla piattaforma di streaming. La data è il 16 dicembre, dopo un passaggio al cinema. Sembra che ormai soltanto un colosso dello streaming come Netflix possa assecondare i desideri straboccanti di autori come questi, che per raccontare le proprie vite hanno voluto mezzi (e minutaggio) senza limiti. Iñárritu non fa eccezione: Bardo è un'opera barocca, che riempie lo schermo di immagini ricche e sognanti, a volte magari forse troppo compiaciute, ma di grande impatto visivo.
"A volte la tristezza fa bene"
L'alter ego di Alejandro González Iñárritu (interpretato da Daniel Giménez Cacho, molto bravo) è Silverio Gama: affermato giornalista indipendente che ha rifiutato il populismo della televisione per realizzare i suoi documentari. Andato a vivere da tempo negli Stati Uniti, torna in patria, in Messico, per ricevere un prestigioso premio conferito al giornalismo di qualità. È il primo del suo paese a riceverlo. Per l'occasione porta moglie e figli con sé, frequentando spiagge e feste in suo onore. Dovrebbe essere felicissimo. Eppure è inquieto: merita questo riconoscimento? Glielo stanno dando soltanto perché i rapporti tra USA e Messico sono tesi e questo gesto potrebbe calmare gli animi? Parlare di sofferenza, poveri e migranti quando in realtà ormai vive a migliaia di chilometri di distanza nel privilegio e nella sicurezza è intellettualmente onesto?
Silverio Gama non si dà pace. Soffre di sindrome dell'impostore, pensa di non meritare nulla, ma allo stesso tempo si sente moralmente superiore a tanti parenti e colleghi. Il figlio è spietato e gli parla chiaramente: il Messico è un paese povero e lui ha lucrato su quella miseria. Quindi fare gli intellettuali snob a tutti i costi non ha senso. Eppure Silverio ha cercato di dimostrare di essere bravo tutta la vita, a partire dalla sua famiglia, che lo ha sempre fatto sentire diverso: la sua pelle più scura, che gli ha fatto guadagnare il soprannome di "scuretto", è sempre stata lì, quasi come un peccato originale.
È pieno di contraddizioni, Silverio. E, anche se forse in fondo gli piace cullarcisi, le accetta e le capisce. Ha imparato a conviverci, comprendendo che sono proprio queste a rendere gli esseri umani tali. Quindi va bene ritrovarsi improvvisamente tristi, come la figlia, che si commuove pensando al luogo natio che ha lasciato, ma a cui preferisce comunque quello più sicuro, non sentendosi mai a casa in nessun posto. E va bene anche scatenarsi all'improvviso in un ballo che libera dai pensieri, in una scena di danza che è una meraviglia.
Cosa hai imparato dalla vita?
Un premio, un ritorno a casa, l'elaborazione di un lutto mai davvero superato. E poi la storia del Messico, un paese dalla bellezza naturale abbagliante, ma fondato sul sangue: il peccato originale è stato l'invasione dell'aggressivo uomo bianco, incarnato dal condottiero spagnolo Hernán Cortés, che distrusse l'impero azteco. Iñárritu riempie Bardo dei miti e del folclore del suo paese, meno comprensibili a noi, ma fondamentali per parlare di una terra così complessa come quella messicana.
Revenant: l'uomo e l'orso, la vendetta e la natura
Tutto questo, che se vogliamo è una trama molto semplice e vista già tante volte, è raccontato attraverso una serie di immagini spettacolari, che si alternano senza sosta, tra piani sequenza (reali e non) infiniti. L'immaginario di Iñárritu è ricco e calcolato al dettaglio. Forse anche troppo: il regista sa di avere un grande talento visivo e spesso se ne compiace. Ma, visto il risultato, come dargli torto? In Bardo ci sono moltissime immagini che sembrano dei quadri viventi.
Tre ore di durata forse sono troppe, soprattutto perché, nella parte finale, il regista tende a ripetersi. Ma si può soprassedere: una volta entrati nel subconscio di Iñárritu è difficile non rimanere affascinati dai suoi colori, dai giochi di silhouette, dalla forza pulsante del suo cinema. Cosa hai imparato dalla vita? Chiede a se stesso Silverio/Alejandro. Le risposte potrebbero essere tante. Che "i nostri veri nemici sono i nostri veri maestri". O che "non ci sono eroi: tutti mangiamo la stessa merda". Per citare solo due delle frasi del film (scritto insieme a Nicolás Giacobone, già sceneggiatore di Biutiful, Birdman e Revenant). Il responso, che non sentiamo, e che probabilmente cambia per ognuno di noi, è avvolto dal mistero. Sicuramente l'autore sembra invitarci a non perdere mai l'immaginazione, a cercare sempre la bellezza, a restare sempre curiosi. E soprattutto a non farci ingannare dalle false sirene della stabilità e del successo. Come gli dice il padre, il successo si deve assaggiare, sputare e risciacquare. Altrimenti diventa veleno.
Conclusioni
Come scritto nella recensione di Bardo, cronaca di una falsa verità, attraverso l'alter ego Silverio Gama, stimato giornalista, Alejandro González Iñárritu racconta la sua vita, la storia del proprio paese, il Messico, riflette sul cinema e sul successo. Un grande "film-sogno", in puro stile 8 e 1/2 di Federico Fellini, che mostra per tre ore la grande abilità immaginifica del regista. Tre ore forse sono troppe, sopratutto perché Iñárritu spesso si compiace della propria bravura e si ripete, ma siamo comunque di fronte a una grande esperienza cinematografica d'autore.
Perché ci piace
- Il protagonista Daniel Giménez Cacho, alter ego di Iñárritu, molto bravo.
- L'abilità del regista di creare immagini che sembrano quadri viventi.
Cosa non va
- Tre ore di durata sono forse eccessive, visto che il regista nella parte finale tende a ripetersi.
- Iñárritu spesso è molto compiaciuto del proprio talento visivo, ma, appurato il risultato, ci si può passare su.