Con la recensione di Bad Boys for Life (titolo che, per inciso, avrebbe avuto più senso per un eventuale quarto episodio) torniamo nella Miami soleggiata e violenta che nel 1995 sfruttò per la prima volta le doti da protagonista cinematografico di Will Smith (al fianco del collega Martin Lawrence) e permise a un certo Michael Bay di esordire nel lungometraggio. Un successo notevole (19 milioni di dollari di budget all'epoca e 141 milioni al box office globale), che nel 2003 generò un sequel ancora più ipertrofico, meno redditizio (budget di 130 milioni, incasso mondiale 270) ma comunque abbastanza apprezzato dal pubblico da generare continue conversazioni su un terzo capitolo, arrivato nelle sale a venticinque anni dalla nascita del franchise, con risultati encomiabili: nelle quattro settimane che hanno preceduto il suo debutto nelle sale italiane il film, costato 90 milioni di dollari, è arrivato a quota 370 nel resto del mondo, il migliore incasso dei tre episodi senza considerare l'inflazione.
I tempi cambiano, loro due no
In Bad Boys for Life ritroviamo quindi Mike Lowrey (Will Smith) e Marcus Burnett (Martin Lawrence), alle prese con il contrasto tra le routine lavorative consolidate e l'età che avanza: Marcus, che nella sequenza d'apertura diventa nonno, è pronto per la pensione, mentre Mike non ne vuole sapere. Altrove, in una prigione messicana, una certa Isabel Aretas (Kate del Castillo) riesce a evadere con l'aiuto del figlio Armando. Lei è la vedova del gangster Benito Aretas, morto in carcere, e intende vendicarsi di tutti coloro che contribuirono alla di lui condanna. Tra questi c'è Mike, che viene quindi preso di mira da Armando ed estromesso dalle indagini ufficiali dato il suo coinvolgimento personale nel caso. L'unica soluzione è chiedere aiuto a Marcus, il quale, dopo una certa esitazione iniziale, accetta di aiutare l'amico un'ultima volta, fuggendo dal tedio casalingo che accompagna la pensione per ritrovare le strade roventi e brutali della Florida. I "cattivi ragazzi" sono tornati, e non hanno alcuna intenzione di andarsene.
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Per certi versi, non è cambiato nulla: il logo iniziale è quello classico della Don Simpson/Jerry Bruckheimer, omaggio del grande produttore Jerry Bruckheimer al compianto amico e collega Don Simpson, che morì dopo l'uscita del primo episodio, e la dinamica tra i due protagonisti è rimasta intatta, così come il sostegno comico, con abbondanti dosi di turpiloquio, a cura di Joe Pantoliano. Ma allo stesso tempo è cambiato tutto: non c'è più Michael Bay in cabina di regia, anche se è rimasto coinvolto concedendosi un divertente cameo (è il maestro di cerimonie al matrimonio della figlia di Marcus). Al suo posto sono arrivati Adil El Arbi e Bilall Fallah, due cineasti belgi che esordiscono a Hollywood con questo progetto (e hanno in cantiere Beverly Hills Cop IV), e con loro è arrivato il cambiamento più grande: l'azione rimane ipercinetica e spettacolare, ma è anche lineare e intelligibile, senza quei continui stacchi di montaggio che sono la cifra stilistica di Bay, nel bene e nel male. Dopo gli eccessi del secondo episodio, il tutto è decisamente più coerente, con un uso gradevolmente corretto dello spazio cinematografico.
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Questioni di età
È passato un quarto di secolo dagli albori del franchise, anche per i due attori principali nonostante l'aria ancora piuttosto giovane (Will Smith e Martin Lawrence avevano rispettivamente 50 e 53 anni durante le riprese). E con questo invecchiamento arriva un tono leggermente diverso, più maturo e a tratti malinconico, che riflette e ragiona sull'eredità del franchise stesso, non senza una certa dose di autoironia (la nuova generazione che cerca di fare sua la canzone dei due poliziotti è una gag molto simpatica). Certo, alcuni elementi del DNA cinematografico non possono essere alterati (anche se in misura ridotta, il sessismo tipico delle opere di Bay fa capolino in alcuni momenti), ma per la prima volta Mike e Marcus sono dei personaggi a tutto tondo, anziché dei semplici archetipi che muovono l'azione. Qui la componente ludica asseconda l'evoluzione del duo, che si ritrova al centro di un approfondimento psicologico coinvolgente e necessario, un segno dei tempi che però risulta anche coerente con quanto visto nei due episodi precedenti. E forse, da quel punto di vista, ha senso non aver scelto il titolo di questo capitolo come inevitabile gioco di parole per il quarto film, dovesse mai essere realizzato: questi sono Bad Boys per sempre (for life), uniti da un legame inscalfibile nei confronti del quale questa terza avventura è una lunga, intelligente, spettacolare lettera d'amore.
Conclusioni
Arriviamo al termine della recensione di Bad Boys for Life, terzo e migliore capitolo del franchise action. A venticinque anni di distanza dal primo episodio e diciassette dal secondo, il passare del tempo si fa sentire in positivo, con una scrittura più intelligente e ragionata che alle gag e all'azione abbina anche una bella riflessione sull'amicizia e sull'invecchiamento. Will Smith e Martin Lawrence, già molto affiatati nei due film precedenti, raggiungono in questa sede l'apice della loro alchimia sullo schermo.
Perché ci piace
- Il cambio in cabina di regia comporta un apparato visivo più fluido.
- I due protagonisti rimangono un ottimo duo cinematografico.
- La componente più matura e malinconica è molto apprezzabile.
Cosa non va
- Alcuni momenti più leggeri sono un po' fuori luogo e fuori tempo massimo.